domenica 2 dicembre 2007
Vanitas (5)
In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)
Il ‘sistema-cinema’? Eccolo.
Si comincia con le scuole (di cinema), unanimemente basate sulla dittatura della sceneggiatura - inutili edifici pensati per non far pensare.
Gli Stati - segnatamente le cosiddette democrazie occidentali - mantengono intatta una logica di finanziamento per cui a essere ‘pagate’ sono le sceneggiature (e a pagare i film): non importa l’immagine, ma il controllo sull’immagine.
Produttori, distributori, giornalisti e ora anche regioni, comuni, province, film commission, feste e festival, sono un’unica congerie di connivenza e mantenimento di quanto ‘sistemato’.
La visibilità, il successo addirittura, non riguardano il film, ma derivano dai codici e dai mezzi di comunicazione, il succo e il nucleo del sistema, cioè quanto di più drogato, prezzolato e ossessivamente ipocrita si possa concepire.
L’unica preoccupazione è coinvolgere le anomalie nel sistema, in modo che tutto sia (nella) media, che nulla più si mostri irriducibile, o che mantenga intatta la cultura del conflitto (che è l’unica cultura degna di questo nome).
E in questa melma ognuno fa tranquillamente i propri comodi, dicendo tutto e il contrario di tutto, negando l’evidenza, senza alcuna dignità personale, senza alcun rispetto per la propria storia, né per quella altrui.
Tutto è virtuale, soprattutto il lavoro.
Ecco allora, per vanità, e sicuramente con vane finalità, una ulteriore ‘dis-attenzione’ al cinema, sottoforma di memorie di un selezionatore e di frequentatore di festival. Mappe e diari sparsi, pagine strappate di titoli, sequenze, piccole cose, brevi accensioni, siderali analogie, di tutto quello che non si fa a tempo a comunicare (perchè non si crede alla comunicazione).
Vanamente, si tenta una lista di cose che altrimenti andrebbero perdute. Dicendo basta col privilegio di aver fatto parte di un comitato di selezione (quello del fu Torino Film Festival), cioè di avere goduto della fortuna di vedere qualche film più degli altri.
Mappe e Diari (2006)
1.
Remorques (1942) di Jean Gremillon
Miami Vice (2006) di Michael Mann
Due sequenze, il cui virtuosismo - spinto al limite del mai visto e dell’inspiegabile (è ancora questo che si sogna al cinema?) - si auto-cancella o riesce a tradursi in un fatto filmico, ma con il vigore e la dolcezza di un colpo di vento. Succede di rado: perdere di vista la cinepresa e non sapere più come ha fatto a esserci (Mann); vederla uscire perentoria e serena da una finestra chiusa - con un arretramento che è anche un carrello a scoprire a metà fra un dolly e uno zoom, entrambi ‘inesistenti’ all’epoca - passando attraverso il vetro, mentre tutto il mondo le crolla addosso (Gremillon). (Vista cosa simile anni fa in Contact di Zemeckis. E per brevi istanti provata la stessa sensazione con X-Men 3 di Bret Rattner).
2.
Fino a non essere più tanto sicuri dell’ossessione che è il tempo, e al contrario è probabile che il tempo sia ossessionato dal cinema. In ogni caso non la smettono di ‘dirlo’:
“Il mio cinema è una sorta di grande presente” (Claude Chabrol)
“Il presente è fatto di tanti pezzetti di passato” (Joan Crawford in Foglie d’autunno (1956) di Robert Aldrich)
“Il tempo è implacabile” (Robert Duvall in Broken Trail, 2006, di Walter Hill)
“Il tempo non passa, siamo noi che ci passiamo attraverso” (Jour après jours, 2006, di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier)
3.
Klimt (2006) di Raoul Ruiz
Jours tranquilles à Clichy (1990) di Claude Chabrol
Investigating Sex (1991) di Alan Rudolph
Black Book (2006) di Paul Verhoeven
Fino a ridestarsi nudi. Tre nudi di donna (tre sequenze nude e di nudità) che sono diafani d’invisibile (nel bianco pelle glabro e nel rosso chiaro pube: si sa, le donne sono delle perfezioniste), e si sdoppiano, rallentati e sovrimpressi, come carne areiforme, come tutte le immagini.
4.
MPD Psycho (2000) di Takashi Miike
Pioggia nera (1989) di Imamura Shoei
E forse - dell’acido sterminio nucleare e seriale - i corpi lasceranno il lampo di luce che lo precede (ricordo di Terminator 2 di Cameron).
5.
Il cimitero del sole di Nagisa Oshima
Tutto un film girato in quel lampo, con l’immagine che ‘si trema’, e l’occhio costretto a vedere nelle crepe - qualcosa che, a memoria, non si è mai più visto (in precedenza, si: Germania anno zero di Rossellini).
6.
Pro-Life (2006)di John Carpenter
Imprint (2006) di Takashi Miike
Lágrima Pantera (1972) di Julio Bressane
C’è chi, questo accecamento, arriva a filmarlo senza occhi. Ma non è tanto lo sguardo della macchina a mancare, è il sottrarsi in sé, e dunque ritornare alla visione che è già lì (prima della macchina). (Ancora: Rossellini).
7.
Morte all’orecchio di Van Gogh (1968) di Piero Bargellini
Trasfermento di modulazione (1969) di Piero Bargellini
Erinnerung an die zukunft (1970) di Piero Bargellini
Dove incominciano le gambe (1971) di Piero Bargellini
Due silenzi e un’armonica (1974) di Piero Bargellini
Prima della macchina non significa solo affollarsi di fantasmi, ma ricondurre il fantasma alla materia, lavorando direttamente il materiale. Quanto più si è ciechi, tanto più l’immagine si vede.
8.
Dante no es únicamente severo (1967) di Joaquín Jordá e Jacinto Esteva Grewe
Más allá del espejo (2006) di Joaquín Jordá
Non è detto che (non) si veda. (La vita, Ruiz sarebbe d’accordo, e forse anche Kubrick, è una partita a scacchi. Non basta pre-vedere le mosse altrui, eppure è questa l’unica possibilità di salvarsi o di perdersi. L’insegnamento di Jordá è, nella cecità, di non fare affidamento sulla severità degli specchi. Non è quella - l’immagine).
9.
Dovessi realmente sceglierne dieci e solo dieci, rifarei la lista in piena contraddizione con quella pubblicata. Direi:
Quei loro incontri Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
The New World di Terrence Malick
INLAND EMPIRE di David Lynch
Black Book di Paul Verhoeven
Miami Vice di Michael Mann
Belle Toujours di Manoel de Oliveira
Time di Kim Ki-duk
Pro-Life di John Carpenter
Cuori di Alain Resnais
Juventude em Marcha di Pedro Costa
10.
Certa inevitabile cecità d’insieme trova salvezza nei nomi. Nelle liste c’è già tutta la luce necessaria. Nell’elenco si trama il dopo delle parole, come se fossero già state dette e scritte e superate. A ben vedere, una forma di rigore assoluto. Perciò la lista 2006 è:
Scorsese, Ioseliani, Gitai, Eastwood, Shyamalan, Tsukamoto, Argento, Sokurov, Pollet, Dwoskin, Ming-liang, Chabrol, Lopes, Moullet, Oshii, Kon, Zhangke, Friedkin, Dumont, To, Sissako, Kurosawa, Hill, Spielberg, De Palma, Jordá, Ruiz, Herzog, Altman, Bellocchio, Rattner, Makhmalbaf.
11.
C’è un film italiano non visto da - quasi - nessuno, una di quelle cose italiane imperfette, che hanno il pregio (il privilegio?) di non essere selezionabili da nessun festival, perchè nell’imperfezione nascondono lo slancio che costringerebbe selezionatori e spettatori a rischiare qualcosa in prima persona. E anche questo è parte essenziale del sistema: declinare ogni responsabilità. Per chi mai lo vedrà, c’è un regista italiano di nome Vittorio Rifranti che ha fatto un film intitolato Tagliare le parti in grigio, che si assume la responsabilità dei corpi che filma, e laddove la sceneggiatura non lo costringe al taglio (sul più bello la maledizione del dialogo...), riesce anche a illuminarli (ovviamente ci si è messa anche la ‘critica’, che per meglio ‘venderlo’ non si occupa del film, ma del suo contenuto: body art, sadomaso, etc.).
12.
Mappa medio-O-rientale
Nessuno di questi film è un capolavoro. La maggior parte sono opere prime o quasi. Tutte hanno almeno una sequenza o una ‘mossa’ visiva che non si dimentica. È l’ultima mappa.
Green Mind, Metal Bats di Kazuyoshi Kumakiri (Giappone)
Il regista è più che conosciuto in Europa. Questo è il suo film più stralunato, livido, autunnale. Compare in una piccola parte il grande Koji Wakamatsu.
Anime vermiglie di Masaki Iwana (Giappone)
Opera prima. Film di folle manierismo (bianco e nero, cerebralismi vari), ma con virate hard inattese, che si consuma tutto nel porno che sarebbe potuto essere. Le scene hard hanno come protagonista una sconosciuta attrice italiana.
Notebook of Life di Makoto Itakura (Giappone)
La serietà di una prospettiva calligrafica. Senza punte particolari, ma senza orpelli (che è già qualcosa).
The Curse di Koji Shiraishi (Giappone)
Opera prima. L’ipotesi ‘alla moda’ - docufiction horror paranormale - ha il merito, o l’inconsapevolezza, di vedersi trascinare nell’assoluta indistinzione documentaria.
The Pavilion Salamandre di Tominaga Masanori (Giappone)
Al suo primo film. Il regista proviene dalla televisione e - assolutamente incompreso - tracima tutto, da Godard a Suzuki. Se ne riparlerà.
Outside di Wang Wo (Cina)
Una specie di cinema-formicaio, che ha il difetto di esplicitare troppo l’assunto teorico. Occhio aperto moltiplicato sul fuori, metafora di un paese sterminato in cui evidentemente a sterminarsi in mille derive sono gli occhi stessi che lo abitano.
Pleasures of Ordinary di Xia Peng (Cina)
Una delle scoperte del 2006. Si veda conversazione con l’autore sul numero precedente di “Filmcritica”.
Street Punk di Zhang Xiao Bing (Cina)
Folle e quasi fuori squadra. Indifferente a sceneggiature e modalità ‘cinesi’. Svagato e ossessivo. Geograficamente impazzito, con un quartiere ridotto a cunicoli di cui è impossibile ricostruire il perimetro. Un po’ confusionario nella seconda parte.
Bliss di Sheng Zhimin (Cina)
Prodotto da Fruit Chan, ha uno sguardo sospeso e inventivo sul farsi metropolitano. Notevole.
Tian Li di Tian Song (Cina)
Documentario duro, totalmente operaio, completamente di parola.
Binglan (Phoenix) di Fang Li (Cina)
Yuanli (Distance) di Tie Wei (Cina)
Betelnut di Heng Yang (Cina)
Tre film non proprio innovativi, ma che dimostrano quanto ha contato in questi anni un cineasta come Jia Zhangke.
Joeun baewoo (A Great Actor) di Shin Yeon-Shick (Sud Corea)
Corsa generazionale con coda rivettiana. Quanto più si allunga, tanto più setaccia la filmicità assente del digitale.
Digital Short Films by Three Filmmakers 2006: Talk to Her (Sud Corea)
Dei tre episodi, quello di Eric Khoo va assolutamente recuperato, per la sua dialettica impura fra orizzonte vitale e orizzonte digitale.
Love Phobia di Kang, Ji-eun (Sud Corea)
Sulla scia di Signs di Shyamalan (ampiamente citato), un folle melodramma fantasy strappalacrime.
Monopoly di Hang-Pae Yi (Sud Corea)
Suadente, patinato, ma queste volute possono ipnotizzare.
Bloody Tie di Ho Choi (Sud Corea)
Un poliziesco duro, con degli strappi notturni violentissimi.
Bewitching Attraction di Ha Lee (Sud Corea)
Commedia. Bello il ritmo claudicante e arreso a se stesso.
Silk di Su Chao Pin (Sud Corea)
Il filo invisibile che s-collega l’Oriente. Sottovalutato a Cannes.
Aachi&Ssipak di Bum-jin Joe (Sud Corea)
Il più perverso e ‘flautolento’ film d’animazione visto da molti anni. Un hard… caco-fonico.
Sunday in August di Lee Jin-woo (Sud Corea)
Secco e deciso come raramente accade di vedere (perciò al contrario si spera sempre di vederlo frantumarsi…)
Daisy di Andrew Lau (Hong Kong)
Regista hongkongese, attori sudcoreani, set olandese. Sul terreno in cui John Woo è stato il più grande, un ritorno al ‘canone’ che non intacca il maestro, ma lo addensa nella ripetizione.
Dog Bite Dog di Soi Cheang (Hong Kong)
Forcluso nella sua asprezza testarda, nel suo non volersi concludere.
The Bicycle Odissey di Li Chih-chiang (Taiwan)
Il mondo attraversato in bicicletta. Wakamatsu fa subito scuola.
Desincarnation di Zhi-Ju Lin (Taiwan)
Quin invece è la scia di spettri di Kurosawa Kiyoshi a fare da riferimento, a tal punto da non dare più riferimenti…
Podokkhep (Footsteps) di Suman Ghosh (India)
Entra lentamente nel lessico familiare e ha un certo gusto per il posizionamento della macchina. Bisogna anche dire che, raggiunto un certo ritmo, non lo supera mai
Love for Share di Nia Dinata (Indonesia)
Ancora l’imperfezione, ma da ogni rivolo e ogni incongruità trasuda una carnalità potente.
In da red corner di Dado C. Lumibao (Filippine)
Ha delle cose bruttissime (autentici vezzi: tagliuzzi, velocizzazioni ralenti), che ne disturbano la forza complessiva. Ma include una sequenza memorabile: la ricerca estenuante notturna di un assorbente fra baraccopoli e agglomerati fatiscenti da parte della giovane pugile protagonista.
Kubrador (The Bet Collector) di Jeffrey Jeturian (Filippine)
Corrusco, sporco al punto giusto. Opera quarta.
Manoro di Dante Mendoza (Filippine
Kaleldo di Dante Mendoza (Filippine)
Probabilmente è un grande regista. Questi sono il suo secondo e il suo terzo film. Il primo vero erede di Lino Brocka.
The White Silk Dress di Huynh Lun (Vietnam)
Melodramma della retorica, con l’intensità e i difetti che solo un classico si può permettere.
Rain Dogs di Ho Yuang (Malesia)
Film quasi perfetto. Di grande, semplice, intensità.
Before We Fall in Love Again di James Lee (Malesia)
Terzo film. Meno libero e ispirato dei lavori precedenti (corti compresi). Ma Lee in patria è una istituzione e come produttore e direttore della fotografia compare in numerosi esordi altrui. E qui, nel finale, piazza una vertigine fantasmatica che ribalta le debolezze del film.
The Bird House di EngYow Khoo (Malesia)
La precisione spietata della solitudine.
Chaharshanbe-soori (FireWorks Wednesday) di Asghar Farhadi (Iran)
Ha un piglio cukoriano con cui costruisce una girandola sonora e filmica comica e d’amore, che veramente non ho mai visto in un film iraniano. Opera terza.
Parole di Mehdi Nourbakhsh (Iran)
Tutto ciò che sembra di maniera, qui invece si rivela finalmente impulso per un taglio e una ricerca del ‘plan’, di nuovo, molto poco iraniani.
Looking Through di Maani Petgar (Iran)
Ex assistente di Amir Naderi. Ancora un detour digitale che si fa film per ragionare sul mezzo.
Café Setareh di Saman Moghadam (Iran)
All’inizio e per un po’ un film denso di corpi e di passioni notturne molto ben impastate.. Poi si perde, con un recupero nel finale..
The Kandelous Garden di Iraj Karimi (Iran)
Oggetto indecifrabile. Diviso in due parti parallele: quelle in flash-back hanno il pregio di risultare inclassificabili.
Le dernier homme di Ghassn Salhab (Libano)
Un vampiro a Beirut. In realtà il sangue è di tutti gli altri. Slittamento poetico-politico nella notte mediorientale.
Close to Home di Dalia Hager (Israele)
Molto di contenuto, ma con una leggerezza dolciastra per certi versi inaspettata.
13.
martedì 10 ottobre 2006
Oggi è morta Danièle Huillet. È morta ieri sera - l’ho saputo stamane, era qualche mese che sapeva di doversene andare. Ho una lettera, non finita, indirizzata a lei e a Straub per parlargli di Quei loro incontri.
Per ore il telefono ha squillato. Esiste una comunità invisibile, nonostante tutto. È sempre la morte a raggranellare l’invisibile. Con df decidiamo di andare in macchina a Parigi per il funerale (non abbiamo i soldi per l’aereo).
Sono ore che rileggo quel loro libro, Scritti cinematografici. All’inizio l’ho preso in mano per vedere delle fotografie di lei. Mi tormenta l’ultima immagine di Quei loro incontri con la macchina che muove verso il cielo e sull’azzurro c’è un cavo elettrico.
So che anche questo c’entra con Danièle. Lo so da queste parole di suo marito: “Tutta l’arte del cinematografo non è altro che l’applicazione dello spazio al tempo. Nessuno potrà essere promosso maestro di detta arte cinematografica che non sia di buona vita e costumi”.
Che sorpresa l’avverarsi del caso! Leggendo Aurora di Nietzsche sulla morale e leggendo questo Rossellini citato da Straub: “In Paisà quando il negro si addormenta, il ragazzino gli dice: “Guarda che se ti addormenti ti rubo le scarpe”. Il negro si addormenta e il ragazzino gli ruba le scarpe. È giusto, è normale, è quel gioco straordinario in cui si situano i limiti della morale”.
Non mi mancheranno i film di Danièle, ma il sapere che su questa terra non c’è più una persona che faceva sperare in un mondo diverso da questo. (Al bar, poco fa, un bambino biondo dal viso da adulto ha speso due euro per un gelato e, preso in giro dal barista, ha risposto con aria sorniona “Sono i risparmi mia”. Ha detto ‘mia’, in dialetto, ma ha anche usato la parola risparmi, che non sentivo da tanto).
Di Danièle mi mancheranno la severità e la tenerezza.
mercoledì 28 novembre 2007
Il digitale non esiste - aforismi (101-120)
102. La grana dell’immagine è più interessante della sua origine.
103. Per questo, prima del digitale, la sporcizia del video e la sua diversa intensità elettronica si erano dimostrate, per l’immagine, benefici tumori.
104. In Autofocus di Schrader l’attore in crisi pensa se stesso come eterna differita, accecato dal tempo continuamente sottratto e ripetuto del ri-vedersi, ri-godersi, ri-montarsi, dell’essersi guardati.
105. Il tempo è un nastro riavvolgibile.
106. Indeciso se morire di cancro o morire di cancro filmato da Wenders, il cineasta dell’immagine mutante Nicholas Ray, visionando il suo ultimo film, riconosce l’insulsaggine dell’offerta infinita di formati. 8, 16, 35, video: “Stronzate di questo tipo”.
107. “Lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che consentono di arrivare a prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione” (G. Debord).
108. Già in The Chelsea Girls Warhol ‘vede’ che il proliferare di soglie d’attenzione illusorie, di doppi, di eccessi, di sospensioni, di dirette e di differite, spinge l’immagine a esibire la propria naturale propensione all’automatico, all’impersonale, al farsi sentire della macchina esattamente nel punto in cui tende a svanire. E viceversa.
109. Televisione è la parola?
110. Quando Rossellini passa a lavorare per la televisione, non smette di fare film, ma comincia a dubitare della consistenza stessa delle cose.
111. Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata.
112. Sospettare anzitutto del cinema. Sospettare di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose.
113. Rossellini ha insegnato che parole come comunicazione, immagine, cinema, televisione, storia ecc. hanno significato solo se si ha il coraggio di raggiungere la quotidianità media del vedere, di innestarsi nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio. E non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito.
114. Cosa significa fare un film? Cosa vuol dire essere regista? Null’altro che trovare la giusta distanza dal film e dalla regia.
115. Era questo che intendeva il Dada quando provava a porre in pausa, a provocare un intermezzo, all’interno del meraviglioso e inarrestabile progredire sociale?
116. L’immagine dadaista, mediante un apparato tecnologico che contempla nella sua macchinalità anche e soprattutto la propria negazione, in qualche modo prefigura un’immagine - digitale? - che per esserci deve letteralmente negare l’esistenza fisica dell’immagine stessa e dichiararsi inautentica.
117. L’innesto di questa frammentazione e disarticolazione in un turbine industrialmente strutturato di lapsus, interruzioni, slittamenti, scomposizioni, evidenze, quadri sghembi, miti, culti, stati d’intensità sempre uguali e sempre diversi, si chiama Hollywood.
118. Blockbuster significa anche: filmicità della macchina che evapora se stessa nell’immagine, quasi rendendo invisibili le proprie fondanti articolazioni industriali.
119. “I film non si fanno, si ri-fanno” (I. Thalberg).
120. Non a caso i primi a sparire sono i registi, i cosiddetti autori.
venerdì 23 novembre 2007
VITTORIO COTTAFAVI
Vittorio Cottafavi - La conquista dell’immagine (televisiva)
Quando, fra il 1981 e il 1985, Vittorio Cottafavi firma i suoi due ultimi film prodotti dalla Rai, Maria Zef e Il diavolo sulle colline, la televisione è già lo specchio di un mondo in frantumi. La riduzione di spazi di pensiero, parallela all’occupazione dello spazio-tempo da parte dell’ideologia dell’inserzione, riguarda da vicino la rabbia e il dolore di queste immagini ultime. Immagini perfette, che dell’esperienza cine-televisiva, forniscono la lezione magistrale attraverso il racconto profetico della fine della civiltà contadina (Maria Zef), e si innestano nel punto nevralgico della crisi - come dimostrano i nostri giorni, mai rientrata del tutto - politica, economica e sociale italiana (la Torino del 1937 raccontata da Pavese ne Il diavolo sulle colline). Immagini perfettamente politiche dunque, per la loro capacità di trovare un tempo filmico, di riconsegnare un sonoro a un paesaggio muto, a una memoria dispersa, a un’umanità estranea. Immagini che esaltano la parola con piglio straubiano, recuperando alla verbalità la forza culturale del conflitto, della differenza, superando d’un balzo i germi pericolosissimi dell’indolenza, della miseria, e modellando un lascito malinconico, ma anche incline al risveglio, alla ripresa, contrario all’inerzia.
Non diversamente da quanto accadutogli lungo tutta la sua carriera, Cottafavi faceva fronte all’ulteriore isolamento, al reiterarsi dell’equivoco che voleva la sua immagine, così severa e distaccata, una buona composizione e niente più, scambiandone la volontà straniata per forma chiusa e inerte, mentre invece, insieme al lavoro parallelo di Rossellini, ad oggi resta il tentativo più intenso e lucido di difesa dell’uomo-spettatore. Nessuno come Cottafavi si è preoccupato di rispettare la posizione semplice di chi osserva e di farne il fondamento di una storia di cinema. Nessuno come lui sapeva che l’immagine precede il film, ed è già parte del mondo di chi si accinge a guardarlo. Così risuona il suo insegnamento: “Per paradosso diciamo: invece di insegnare la storia del mondo, facciamo degli spettacoli che danno la visione del mondo”.
La verità delle apparenze
È forse inevitabile, per colui che sperimenta la doppia faccia cine-televisiva, innestare il proprio discorso direttamente nell’andare in crisi del mondo (di quanto del mondo appare) e verificarne le possibilità di resistenza e di penetrazione rispetto alla superficie. Allo stesso modo in cui la tv, fin dall’inizio, e pur nella sua brutale espressività, si rivela più abissalmente filmica del film.
Una dialettica e uno scivolamento intrinsechi alla scena televisiva, alla sua natura, al suo potenziale comprendere (e farsi comprendere da) ogni possibile scenario, di cui Cottafavi ripercorre le tappe, dal teatral-narrativo al cinetico puro, tracciando anzitutto un gioco di sponde fra interno e esterno, che risulta immediatamente deviante rispetto a cosa era e a cosa ancora è la televisione di messa in scena (dalle prime pirotecniche ‘cose’ televisive, Sette piccole croci e Hansel e Gretel, del 1957, a La spada di Damocle, del ‘58, La trincea, del ‘61, Il mondo è una prigione, del ‘62, fino a Con gli occhi dell’occidente, del ‘79). È come se fosse proprio l’automatico scambio fra sceneggiato e teatro filmato, a scandire la possibilità storica incarnata dal piccolo schermo: prima discussa attraverso l’esplicitazione di questo scambio, e poi portata sul punto limite di messa in crisi, oltre il quale si apre la strada che esce dallo studio, dissolvendone la matrice teatrale e proiettandosi verso quel fuoricampo che, negli anni a venire, la tv ha capitalizzato ferocemente (facendo del mondo fuori un enorme studio televisivo).
Per Cottafavi questo anelito, questa spinta a fuoriuscire, è già tutta sintetizzata nel percorso non neorealista degli inizi del suo cinema - parallelamente a Germi, Lattuada, Antonioni, Pietrangeli.. - depositario piuttosto della lezione di René Clair, Lubitsch, Capra, Cocteau, e soprattutto di Renoir (e per altro verso di John Ford, King Vidor, Raoul Walsh..): valga per tutti La fiamma che non si spegne (del 1949), un film che sminuisce a ogni scena il proprio ‘contenuto’ (la celebrazione delle gesta del carabiniere Salvo D’Acquisto durante l’occupazione tedesca), assunto come maschera dietro cui si scatena la furia realizzativa sperimentale e il gusto geometrico di un cineasta grande astrattista, che avrebbe trovato sponde migliori, e avuto sicuramente più fortuna, nella Hollywood del tempo.
Quando poi nel ‘63 Cottafavi confonde definitivamente le cose, infrangendo gli argini degli studi televisivi per andare a girare interamente in esterni con una piccola troupe e una camera 16mm Il taglio del bosco, dimostra come a interessargli non sia tanto il “realismo” in sé - anche se gli offre migliori chances di riuscita rispetto agli esiti spesso incerti dei lavori realizzati negli studi Rai - quanto invece le possibilità di messa in scena in un set reale, di un discorso sul cinema che l’ostracismo del sistema produttivo italiano gli aveva impedito di proseguire (per questo, non per vocazione o per volontà, approdò in televisione). Discorso mai interrotto, ma rilanciato ogni volta e condotto fino all’atipica soluzione all’interno della serie “Teatro inchiesta”, dove Cottafavi, con Missione Wiesenthal e Il complotto di luglio (entrambi del ‘67) arriva a sceneggiare il repertorio, mostrando come tutto in tv - come tutta la tv - non sia altro che repertorio (a partire dal presentatore, ‘personaggio’ della vicenda non meno di Adolf Eichmann o di Hitler). In questo senso è come se Cottafavi, per altra via (opposta?), giungesse alla medesima concezione enciclopedica di Rossellini, solo, a partire da una procedura filosofica primariamente e precisamente mediata dalla questione tecnica, questione che approfondirà e sonderà inventando soluzioni che la televisione ignorava, contribuendo non poco a dotarla di strumenti linguistici. Tra i due lo scarto è sottile. Cottafavi è cinema che per sapere deve sperimentare il cinema. Rossellini è cinema che per sapere deve sperimentare il sapere (entrambi finendo per sapere in quanto saputi dall’immagine).
Le in-apparenze del vero
Ecco perché verità e menzogna sono un buon punto di partenza, la trama da sviluppare e sciogliere attraverso una conquista dell’immagine (è il titolo di uno dei suoi testi teorici), ossia del luogo in cui le apparenze possono trovare una verità. Ma non tutte le verità (storiche, morali o personali) trovano una trasparenza. Per Cottafavi è necessario anzitutto un lavoro duplice sul testo, sulla scrittura come possibilità del classico (che sia Sofocle, Euripide, Eschilo, Tolstoj, Dostoevski, Conrad, Greene, Chesterton, Pavese o Pirandello), e sul mezzo; rimessi in scena attraverso la consapevolezza (dei limiti) di una tecnica che li possa rappresentare, alludono e più spesso toccano una zona franca - di testualità, di immagini, di personaggi - che provoca uno scarto imprevisto, interno all’immagine, come se ne venisse continuamente preparato e poi filmato il crollo, il collasso di una narrazione cosiddetta televisiva. Sono esemplari in questo senso Le Troiane, Don Giovanni, o Il processo di Santa Teresa del Bambino Gesù, tutti realizzati nel ‘67, e ancora I lupi, del ‘69, Antigone, del ‘71, e I persiani, del ‘75, dove l’oggetto dello spettacolo viene spogliato dal suo mettersi in scena, e quello che più sembra interessare Cottafavi è il rapporto nudo dello spettatore con la scena tecnica (con il suo vuoto), la cui verità coincide con la sua combustione. Le Troiane è la messa in scena che finge la propria prova generale (anticipando il Rivette di Out 1), abbattendo il complotto comunicativo sotteso alla tv con l’intervallo annunciato da una voce fuori campo, esibito, che diventa per forza di cose il momento ‘clou’ dello spettacolo sospeso, con gli attori che fanno una pausa e si fumano una sigaretta per riposare e ritrovare la concentrazione. Uno spazio aperto assoluto in cui non c’è più testo (già manca la scena: lo studio di via Teulada dove è girato è totalmente spoglio), ma solo quest’intermezzo della durata, dove ognuno può scegliere di interrompere, distrarsi, fissarsi su un punto morto (la televisione?).
Il set diventa in Cottafavi lo spazio dove ogni verità deve poter apparire. Lo spazio e non il tempo, o lo spazio come tempo, come passaggio da una condizione a un’altra. Come se - nella convinzione (ingenua forse, ma è un merito) di una presunta medesima idoneità cine-televisiva - venisse a galla ciò che è sempre sbilanciato e conflittuale nell’immagine in sé (Cottafavi insiste a più riprese: il linguaggio è lo stesso, anche se della tv accusa le pesantezze, certe tendenze pachidermiche - “vorremmo parlare di linguaggio ma ancora oggi non ne siamo in grado”).
Allora, attraverso tutti questi interni e interiorità cave, e tutti questi esterni marziani (che dire della follia inventiva della Fantarca e della stralunata genialità di Operazione Vega? E della serialità unica e irripetibile dei Racconti di Padre Brown, di Quinta colonna, di Una pistola in vendita? O ancora di quel kolossal minimale e spietato che è Cristoforo Colombo, in bilico tra Welles, Herzog e de Oliveira, che avrà un seguito ideale nel pre-coppoliano La follia di Almayer?): esiste un metodo Cottafavi?
Certo non è solo Bertold Brecht, riproposto in una pratica che, a ben vederla oggi, era già altro allora. Brecht è stato la sponda immediata per uno che ha intuito la natura celibe di ogni immagine, che fingeva ogni volta il realismo del décor, dei costumi e del lavoro di saturazione degli eventi, per smascherare il ‘fantastico’ che c’è in ogni apparenza reale. Lo spettatore, allora, frana perché frana la verità, e non sarà più possibile identificarsi, bisognerà invece attivare tutti i lati della storia, tornare a spendersi sul già visto (e là dove ci si aspetterebbe un remake, come nel caso dei due Antigone, uno del ‘58 e l’altro del ‘71, o dei molti ritorni sulle vicende della Resistenza, o sui due Zoo di vetro del ’63 e del ’68, Cottafavi gioca invece a rifare disfacendo).
Per questo i suoi film si concentrano sul cambiamento, sullo stato mutante delle cose e degli accadimenti (lo dice bene Michel Mourlet, in una bella intervista anni sessanta: Cottafavi “sfrutta sistematicamente l’insediamento della crisi”). Per questo si interessa del film storico-mitologico (a cominciare dai film per il cinema Le legioni di Cleopatra, La rivolta dei gladiatori, Messalina Venere Imperatrice, I cento cavalieri), che al di là della giusta interpretazione post-felliniana (il film storico come film di fantascienza), pone un problema temporale: cos’è contemporaneo? In cosa sono contemporanei? Cioè non attuali, non ‘classici’, ma presi in un testa coda che la televisione col suo flusso a-temporale spinge al massimo grado di in-apparenza. In questo, per esempio, I cento cavalieri (1964) è già il film più vicino alla televisione di Rossellini, quello che più l’anticipa (allo stesso modo in cui Traviata ‘53 poteva essere accomunato a La paura..). “Bisogna essere contemporanei dell’avvenimento che si sta per raccontare” (Cottafavi). Rossellini diceva: fare la storia per intraprendere una sorta di rammendo della specie umana. Cottafavi è sulla stessa linea: rifare la storia per costringere l’uomo a prendersi in esame. Di chi è questa frase: “Il telefilm dovrebbe essere essenzialmente una informazione sull’uomo”, di chi dei due?
martedì 18 settembre 2007
Il corso delle cose
pubblicato su NAZIONE INDIANA il 16 ottobre 2007
La bella estate ovvero La ballata del (cinema) lavavetri
Mi sarei dovuto arrestare al titolo. Non all’esattezza funerea dell’eco pavesiana, ma alla secchezza del lavoro d’inconscio veggente che si chiama cinema (che è origine copia plagio scarto deviazione generazione morte: ‘la ballata del lavavetri’ si intitolava film non dei migliori – italiano? polacco? – di Peter Del Monte). E dis-mettere subito, nel vuoto d’argomenti che svolazza sotto la canicola - cioè chiudere in men che non si dica la questione risibile che nasconde ed è indicatore di ben altro: a fare schifo non è il derelitto formicaio appostato ai semafori d’incrocio, né l’inesistente racket, ma la vigliaccheria mediobenpensante di quello che accelera, di quell’altro che aziona i tergicristalli, nessuno capace di un semplice no (è a questo circo di piccole inciviltà e grande ipocrisia che i sindaci assicurano protezione).
Invece l’arresto arriva sulla parole. Sulla gigantesca e illusoria gabbia chiamata comunicazione che confonde le dichiarazioni con le notizie, il dibattersi del senso con millantate esigenze collettive. E così si ordiscono trame e si appendono vuote stampelline che diventano – in questo assordante belniente - motivi politici: sicurezza, legalità, civiltà (qualche riga più sopra scappata a me pure, nella sua versione altrettanto ipocritamente privativa). L’alibi è lo stesso di chi crede che per dire democrazia basti avere il diritto di voto, né di destra né di sinistra, proseguendo nel frattempo nel progetto diffuso di continue limitazioni delle libertà individuali. Vantate deportazioni di massa di rom e carcere per tutti, per chi lava un vetro, per chi fa un graffito, per chi accende un fumogeno allo stadio, per chi si fuma uno spinello, sono solo la superficie dell’ignobile impianto a-morale dell’etica di Stato. “Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo per scoprire su di esso nient’altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient’altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza”. L’ignoranza, del resto, è la più grande delle cospirazioni.
Poi c’è l’altra parola: italiano. Rileggendo lo Scalfari del 2 settembre (“
Ammettendo pure che abbia un senso oggi parlare di cinema italiano (e russo inglese americano egiziano indiano francese sudafricano), della sua scarsa incidenza, è viceversa proprio il suo perenne stato di nebulosa, se non altro perché mette in dubbio anzitutto l’atto dello scrivere, a essere affascinante. Non a caso la lista di Scalfari si ferma ai forse e ai Moretti, Muccino, Tornatore, Verdone, dimostrando solo quello che già sappiamo leggendo le pagine degli spettacoli del ‘rivoluzionario’ giornale da lui fondato, e cioè che finge e occulta l’inesistenza del 90% del cinema mondiale. Ma, per limitarsi all’Italia, meglio appuntarsi a futura memoria una lista di grandi senza nazione: Cottafavi, Grifi, Citti, Bargellini, Bava, Freda, Amico, Lattuada, Ferreri, Troisi, Argento, De Bernardi, Ciprì e Maresco. E poi Cicero, Laurenti, Ferroni, Questi, Castellari, Fulci, Di Leo, Corbucci, Margheriti. E poi Calogero, Martone, Gaudino, Sandri. E poi Comencini, Monicelli, Risi. E poi Momo, Rondolino, Staino, Santini, Caligari, Eronico. E poi Soavi, De Lillo, Segatori, Rezza, Benigni, Piscicelli, Guadagnino, Garrone, Pozzessere, Capuano, Incerti (mi scuso con gli assenti, ma chiunque è degno di non-esserci, basta una sola sequenza in cento film ancora da fare). Nessuna voglia di fornire un alibi alla parola scelta come traiettoria non sistematica, il cui unico sistema è il frammento, lo spazio nero bucato, perché è l’immagine, non l’immagine ‘italiana’, a svuotarsi e a moltiplicarsi per non darsi a vedere, per non concedersi il vedere.
Forse questa notte custodisce quella veglia che faceva dire a Blanchot, che lo faceva sperare, che non si fosse ancora e mai scrittori, e che quindi le immagini, anche quelle meno ‘degne’ di essere ri-conosciute e parlate, serbassero una zona d’impersonalità da cui fosse possibile trarre un orizzonte, una linea così infuocata e incerta nel suo celibato estremo, da estrarre dal vuoto una scrittura politica, cioè ‘altra’ quanto basta a circolare, raccontare, agire. Il confine è sottile, visto che il non-essere che vorrebbe essere parlato e parlante, ha come prima tentazione quella di rappresentarsi o di dare una rappresentazione. La questione del cinema italiano è sempre questa: non filma, ma pensa che le immagini servano a rappresentare la realtà. Se il cinema fosse un linguaggio, non se ne parlerebbe. Invece si cercano le parole. Il linguaggio è dei giornalisti. E “non si scampa alla volgarità dell’azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione di Stato”.
venerdì 1 giugno 2007
prossimi villaggi nuovo inizio
(ricominciare?)
Un altro giorno parleremo degli Angeli. Anche se i demoni non sono esauriti. Per l’esattezza ce ne sono tanti quante sono le maniere di fallire, di perdere il Paradiso - o la bellissima idea or ora salita alla testa.
Paul Valery
lunedì 19 marzo 2007
Il digitale non esiste - aforismi (88-100)
89. Fra il 1908 e il 1914, nei film girati per la Biograph, Griffith cataloga in via definitiva ogni singolo diversivo.
90. Nel digitale il numerico è un aspetto qualitativo; nel cinema quantitativo, cioè informatizzato dalla continua ricostituzione del punto di vista.
91. In The Girl and Her Trust Griffith scaglia la macchina da presa a una velocità superiore a quella del primo mezzo di comunicazione digitale, protagonista del film, il telegrafo.
92. Una cinepresa mutante, una macchina sperimentale dal funzionamento automatico, con la stessa non referenzialità dello spazio vuoto di un display, che fa a meno dell’umano, che brucia l’immagine nell’incandescenza continua di linee terrestri e di orizzonti celesti, è stata definita da Michael Snow région centrale.
93. Sokurov con The Sun inventa un’immagine che l’occhio non è più in grado di decidere come è stata ottenuta, arrivando a far coincidere la questione del digitale - l’atto stesso di realizzazione dell’immagine - con quella del potere, indicando la similitudine e quasi l’indiscernibilità dei due vuoti: l’invisibilità del potere e il potere dell’invisibile.
94. Ulmer aveva creduto di poter varcare la linea dicendo: vedere è detour.
95. Il digitale, a sua volta, conferma la collateralità di qualsiasi visione.
96. In Collateral e in Miami Vice Michael Mann sa che il digitale è una deviazione dell’occhio.
97. Anche Une visite au Louvre di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet - non digitale - è tutto un mi sembra di vedere, non si vede più niente, non vedrete più niente, chiudete gli occhi, apriteli, vediamo, quello che abbiamo visto, quello che potremmo vedere.
98. Come i dipinti anche il cinema, con il digitale, non è più libero di perdere i suoi colori.
99. Quando i colori si sbiadiscono, non rimane più che un’immagine.
100. “Guardando non s’impara nulla sui concetti dei colori” (L. Wittgenstein).
martedì 13 marzo 2007
Il digitale non esiste - aforismi (81-87)
82. Per questo la fotografia si è diffusa prima del computer: perchè la pulsione primaria non è di accumulare dati, ma di sopravvivergli.
83. Lucas è un sopravvissuto che individua nell’inapparenza del realizzatore una resistenza all’anonimato del meccanismo.
84. Non è la macchina il problema, ma la possibilità di arrivare a toccare qualcosa del non essere mai del tutto presenti all’immagine.
85. Nessuno è attuale.
86. Che cosa c’è di più virtuale e di più oltre-umano, quindi di più temporale, oltre il tempo, dell’umano?
87. Il digitale è l’in-attualità del (nostro) tempo.