101. Parlando di immagini bisogna ammettere che qualunque scelta le riguardi è figlia della loro e della nostra vanità.
102. La grana dell’immagine è più interessante della sua origine.
103. Per questo, prima del digitale, la sporcizia del video e la sua diversa intensità elettronica si erano dimostrate, per l’immagine, benefici tumori.
104. In Autofocus di Schrader l’attore in crisi pensa se stesso come eterna differita, accecato dal tempo continuamente sottratto e ripetuto del ri-vedersi, ri-godersi, ri-montarsi, dell’essersi guardati.
105. Il tempo è un nastro riavvolgibile.
106. Indeciso se morire di cancro o morire di cancro filmato da Wenders, il cineasta dell’immagine mutante Nicholas Ray, visionando il suo ultimo film, riconosce l’insulsaggine dell’offerta infinita di formati. 8, 16, 35, video: “Stronzate di questo tipo”.
107. “Lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che consentono di arrivare a prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione” (G. Debord).
108. Già in The Chelsea Girls Warhol ‘vede’ che il proliferare di soglie d’attenzione illusorie, di doppi, di eccessi, di sospensioni, di dirette e di differite, spinge l’immagine a esibire la propria naturale propensione all’automatico, all’impersonale, al farsi sentire della macchina esattamente nel punto in cui tende a svanire. E viceversa.
109. Televisione è la parola?
110. Quando Rossellini passa a lavorare per la televisione, non smette di fare film, ma comincia a dubitare della consistenza stessa delle cose.
111. Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata.
112. Sospettare anzitutto del cinema. Sospettare di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose.
113. Rossellini ha insegnato che parole come comunicazione, immagine, cinema, televisione, storia ecc. hanno significato solo se si ha il coraggio di raggiungere la quotidianità media del vedere, di innestarsi nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio. E non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito.
114. Cosa significa fare un film? Cosa vuol dire essere regista? Null’altro che trovare la giusta distanza dal film e dalla regia.
115. Era questo che intendeva il Dada quando provava a porre in pausa, a provocare un intermezzo, all’interno del meraviglioso e inarrestabile progredire sociale?
116. L’immagine dadaista, mediante un apparato tecnologico che contempla nella sua macchinalità anche e soprattutto la propria negazione, in qualche modo prefigura un’immagine - digitale? - che per esserci deve letteralmente negare l’esistenza fisica dell’immagine stessa e dichiararsi inautentica.
117. L’innesto di questa frammentazione e disarticolazione in un turbine industrialmente strutturato di lapsus, interruzioni, slittamenti, scomposizioni, evidenze, quadri sghembi, miti, culti, stati d’intensità sempre uguali e sempre diversi, si chiama Hollywood.
118. Blockbuster significa anche: filmicità della macchina che evapora se stessa nell’immagine, quasi rendendo invisibili le proprie fondanti articolazioni industriali.
119. “I film non si fanno, si ri-fanno” (I. Thalberg).
120. Non a caso i primi a sparire sono i registi, i cosiddetti autori.
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