domenica 2 dicembre 2007

Vanitas (5)

Vanitas: contro la comunicazione


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Il ‘sistema-cinema’? Eccolo.
Si comincia con le scuole (di cinema), unanimemente basate sulla dittatura della sceneggiatura - inutili edifici pensati per non far pensare.
Gli Stati - segnatamente le cosiddette democrazie occidentali - mantengono intatta una logica di finanziamento per cui a essere ‘pagate’ sono le sceneggiature (e a pagare i film): non importa l’immagine, ma il controllo sull’immagine.
Produttori, distributori, giornalisti e ora anche regioni, comuni, province, film commission, feste e festival, sono un’unica congerie di connivenza e mantenimento di quanto ‘sistemato’.
La visibilità, il successo addirittura, non riguardano il film, ma derivano dai codici e dai mezzi di comunicazione, il succo e il nucleo del sistema, cioè quanto di più drogato, prezzolato e ossessivamente ipocrita si possa concepire.
L’unica preoccupazione è coinvolgere le anomalie nel sistema, in modo che tutto sia (nella) media, che nulla più si mostri irriducibile, o che mantenga intatta la cultura del conflitto (che è l’unica cultura degna di questo nome).
E in questa melma ognuno fa tranquillamente i propri comodi, dicendo tutto e il contrario di tutto, negando l’evidenza, senza alcuna dignità personale, senza alcun rispetto per la propria storia, né per quella altrui.
Tutto è virtuale, soprattutto il lavoro.

Ecco allora, per vanità, e sicuramente con vane finalità, una ulteriore ‘dis-attenzione’ al cinema, sottoforma di memorie di un selezionatore e di frequentatore di festival. Mappe e diari sparsi, pagine strappate di titoli, sequenze, piccole cose, brevi accensioni, siderali analogie, di tutto quello che non si fa a tempo a comunicare (perchè non si crede alla comunicazione).
Vanamente, si tenta una lista di cose che altrimenti andrebbero perdute. Dicendo basta col privilegio di aver fatto parte di un comitato di selezione (quello del fu Torino Film Festival), cioè di avere goduto della fortuna di vedere qualche film più degli altri.

Mappe e Diari (2006)

1.
Remorques (1942) di Jean Gremillon
Miami Vice (2006) di Michael Mann
Due sequenze, il cui virtuosismo - spinto al limite del mai visto e dell’inspiegabile (è ancora questo che si sogna al cinema?) - si auto-cancella o riesce a tradursi in un fatto filmico, ma con il vigore e la dolcezza di un colpo di vento. Succede di rado: perdere di vista la cinepresa e non sapere più come ha fatto a esserci (Mann); vederla uscire perentoria e serena da una finestra chiusa - con un arretramento che è anche un carrello a scoprire a metà fra un dolly e uno zoom, entrambi ‘inesistenti’ all’epoca - passando attraverso il vetro, mentre tutto il mondo le crolla addosso (Gremillon). (Vista cosa simile anni fa in Contact di Zemeckis. E per brevi istanti provata la stessa sensazione con X-Men 3 di Bret Rattner).

2.
Fino a non essere più tanto sicuri dell’ossessione che è il tempo, e al contrario è probabile che il tempo sia ossessionato dal cinema. In ogni caso non la smettono di ‘dirlo’:
“Il mio cinema è una sorta di grande presente” (Claude Chabrol)
“Il presente è fatto di tanti pezzetti di passato” (Joan Crawford in Foglie d’autunno (1956) di Robert Aldrich)
“Il tempo è implacabile” (Robert Duvall in Broken Trail, 2006, di Walter Hill)
“Il tempo non passa, siamo noi che ci passiamo attraverso” (Jour après jours, 2006, di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier)

3.
Klimt (2006) di Raoul Ruiz
Jours tranquilles à Clichy (1990) di Claude Chabrol
Investigating Sex (1991) di Alan Rudolph
Black Book (2006) di Paul Verhoeven
Fino a ridestarsi nudi. Tre nudi di donna (tre sequenze nude e di nudità) che sono diafani d’invisibile (nel bianco pelle glabro e nel rosso chiaro pube: si sa, le donne sono delle perfezioniste), e si sdoppiano, rallentati e sovrimpressi, come carne areiforme, come tutte le immagini.

4.
MPD Psycho (2000) di Takashi Miike
Pioggia nera (1989) di Imamura Shoei
E forse - dell’acido sterminio nucleare e seriale - i corpi lasceranno il lampo di luce che lo precede (ricordo di Terminator 2 di Cameron).

5.
Il cimitero del sole di Nagisa Oshima
Tutto un film girato in quel lampo, con l’immagine che ‘si trema’, e l’occhio costretto a vedere nelle crepe - qualcosa che, a memoria, non si è mai più visto (in precedenza, si: Germania anno zero di Rossellini).

6.
Pro-Life (2006)di John Carpenter
Imprint (2006) di Takashi Miike
Lágrima Pantera (1972) di Julio Bressane
C’è chi, questo accecamento, arriva a filmarlo senza occhi. Ma non è tanto lo sguardo della macchina a mancare, è il sottrarsi in sé, e dunque ritornare alla visione che è già lì (prima della macchina). (Ancora: Rossellini).

7.
Morte all’orecchio di Van Gogh (1968) di Piero Bargellini
Trasfermento di modulazione (1969) di Piero Bargellini
Erinnerung an die zukunft (1970) di Piero Bargellini
Dove incominciano le gambe (1971) di Piero Bargellini
Due silenzi e un’armonica (1974) di Piero Bargellini
Prima della macchina non significa solo affollarsi di fantasmi, ma ricondurre il fantasma alla materia, lavorando direttamente il materiale. Quanto più si è ciechi, tanto più l’immagine si vede.

8.
Dante no es únicamente severo (1967) di Joaquín Jordá e Jacinto Esteva Grewe
Más allá del espejo (2006) di Joaquín Jordá
Non è detto che (non) si veda. (La vita, Ruiz sarebbe d’accordo, e forse anche Kubrick, è una partita a scacchi. Non basta pre-vedere le mosse altrui, eppure è questa l’unica possibilità di salvarsi o di perdersi. L’insegnamento di Jordá è, nella cecità, di non fare affidamento sulla severità degli specchi. Non è quella - l’immagine).

9.
Dovessi realmente sceglierne dieci e solo dieci, rifarei la lista in piena contraddizione con quella pubblicata. Direi:

Quei loro incontri Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
The New World di Terrence Malick
INLAND EMPIRE di David Lynch
Black Book di Paul Verhoeven
Miami Vice di Michael Mann
Belle Toujours di Manoel de Oliveira
Time di Kim Ki-duk
Pro-Life di John Carpenter
Cuori di Alain Resnais
Juventude em Marcha di Pedro Costa

10.
Certa inevitabile cecità d’insieme trova salvezza nei nomi. Nelle liste c’è già tutta la luce necessaria. Nell’elenco si trama il dopo delle parole, come se fossero già state dette e scritte e superate. A ben vedere, una forma di rigore assoluto. Perciò la lista 2006 è:

Scorsese, Ioseliani, Gitai, Eastwood, Shyamalan, Tsukamoto, Argento, Sokurov, Pollet, Dwoskin, Ming-liang, Chabrol, Lopes, Moullet, Oshii, Kon, Zhangke, Friedkin, Dumont, To, Sissako, Kurosawa, Hill, Spielberg, De Palma, Jordá, Ruiz, Herzog, Altman, Bellocchio, Rattner, Makhmalbaf.

11.
C’è un film italiano non visto da - quasi - nessuno, una di quelle cose italiane imperfette, che hanno il pregio (il privilegio?) di non essere selezionabili da nessun festival, perchè nell’imperfezione nascondono lo slancio che costringerebbe selezionatori e spettatori a rischiare qualcosa in prima persona. E anche questo è parte essenziale del sistema: declinare ogni responsabilità. Per chi mai lo vedrà, c’è un regista italiano di nome Vittorio Rifranti che ha fatto un film intitolato Tagliare le parti in grigio, che si assume la responsabilità dei corpi che filma, e laddove la sceneggiatura non lo costringe al taglio (sul più bello la maledizione del dialogo...), riesce anche a illuminarli (ovviamente ci si è messa anche la ‘critica’, che per meglio ‘venderlo’ non si occupa del film, ma del suo contenuto: body art, sadomaso, etc.).

12.

Mappa medio-O-rientale

Nessuno di questi film è un capolavoro. La maggior parte sono opere prime o quasi. Tutte hanno almeno una sequenza o una ‘mossa’ visiva che non si dimentica. È l’ultima mappa.

Green Mind, Metal Bats di Kazuyoshi Kumakiri (Giappone)
Il regista è più che conosciuto in Europa. Questo è il suo film più stralunato, livido, autunnale. Compare in una piccola parte il grande Koji Wakamatsu.

Anime vermiglie di Masaki Iwana (Giappone)
Opera prima. Film di folle manierismo (bianco e nero, cerebralismi vari), ma con virate hard inattese, che si consuma tutto nel porno che sarebbe potuto essere. Le scene hard hanno come protagonista una sconosciuta attrice italiana.

Notebook of Life di Makoto Itakura (Giappone)
La serietà di una prospettiva calligrafica. Senza punte particolari, ma senza orpelli (che è già qualcosa).

The Curse di Koji Shiraishi (Giappone)
Opera prima. L’ipotesi ‘alla moda’ - docufiction horror paranormale - ha il merito, o l’inconsapevolezza, di vedersi trascinare nell’assoluta indistinzione documentaria.

The Pavilion Salamandre di Tominaga Masanori (Giappone)
Al suo primo film. Il regista proviene dalla televisione e - assolutamente incompreso - tracima tutto, da Godard a Suzuki. Se ne riparlerà.

Outside di Wang Wo (Cina)
Una specie di cinema-formicaio, che ha il difetto di esplicitare troppo l’assunto teorico. Occhio aperto moltiplicato sul fuori, metafora di un paese sterminato in cui evidentemente a sterminarsi in mille derive sono gli occhi stessi che lo abitano.

Pleasures of Ordinary di Xia Peng (Cina)
Una delle scoperte del 2006. Si veda conversazione con l’autore sul numero precedente di “Filmcritica”.

Street Punk di Zhang Xiao Bing (Cina)
Folle e quasi fuori squadra. Indifferente a sceneggiature e modalità ‘cinesi’. Svagato e ossessivo. Geograficamente impazzito, con un quartiere ridotto a cunicoli di cui è impossibile ricostruire il perimetro. Un po’ confusionario nella seconda parte.

Bliss di Sheng Zhimin (Cina)
Prodotto da Fruit Chan, ha uno sguardo sospeso e inventivo sul farsi metropolitano. Notevole.

Tian Li di Tian Song (Cina)
Documentario duro, totalmente operaio, completamente di parola.



Binglan (Phoenix) di Fang Li (Cina)
Yuanli (Distance) di Tie Wei (Cina)
Betelnut di Heng Yang (Cina)
Tre film non proprio innovativi, ma che dimostrano quanto ha contato in questi anni un cineasta come Jia Zhangke.

Joeun baewoo (A Great Actor) di Shin Yeon-Shick (Sud Corea)
Corsa generazionale con coda rivettiana. Quanto più si allunga, tanto più setaccia la filmicità assente del digitale.

Digital Short Films by Three Filmmakers 2006: Talk to Her (Sud Corea)
Dei tre episodi, quello di Eric Khoo va assolutamente recuperato, per la sua dialettica impura fra orizzonte vitale e orizzonte digitale.

Love Phobia di Kang, Ji-eun (Sud Corea)
Sulla scia di Signs di Shyamalan (ampiamente citato), un folle melodramma fantasy strappalacrime.

Monopoly di Hang-Pae Yi (Sud Corea)
Suadente, patinato, ma queste volute possono ipnotizzare.

Bloody Tie di Ho Choi (Sud Corea)
Un poliziesco duro, con degli strappi notturni violentissimi.

Bewitching Attraction di Ha Lee (Sud Corea)
Commedia. Bello il ritmo claudicante e arreso a se stesso.

Silk di Su Chao Pin (Sud Corea)
Il filo invisibile che s-collega l’Oriente. Sottovalutato a Cannes.

Aachi&Ssipak di Bum-jin Joe (Sud Corea)
Il più perverso e ‘flautolento’ film d’animazione visto da molti anni. Un hard… caco-fonico.

Sunday in August di Lee Jin-woo (Sud Corea)
Secco e deciso come raramente accade di vedere (perciò al contrario si spera sempre di vederlo frantumarsi…)

Daisy di Andrew Lau (Hong Kong)
Regista hongkongese, attori sudcoreani, set olandese. Sul terreno in cui John Woo è stato il più grande, un ritorno al ‘canone’ che non intacca il maestro, ma lo addensa nella ripetizione.

Dog Bite Dog di Soi Cheang (Hong Kong)
Forcluso nella sua asprezza testarda, nel suo non volersi concludere.

The Bicycle Odissey di Li Chih-chiang (Taiwan)
Il mondo attraversato in bicicletta. Wakamatsu fa subito scuola.

Desincarnation di Zhi-Ju Lin (Taiwan)
Quin invece è la scia di spettri di Kurosawa Kiyoshi a fare da riferimento, a tal punto da non dare più riferimenti…

Podokkhep (Footsteps) di Suman Ghosh (India)
Entra lentamente nel lessico familiare e ha un certo gusto per il posizionamento della macchina. Bisogna anche dire che, raggiunto un certo ritmo, non lo supera mai

Love for Share di Nia Dinata (Indonesia)
Ancora l’imperfezione, ma da ogni rivolo e ogni incongruità trasuda una carnalità potente.

In da red corner di Dado C. Lumibao (Filippine)
Ha delle cose bruttissime (autentici vezzi: tagliuzzi, velocizzazioni ralenti), che ne disturbano la forza complessiva. Ma include una sequenza memorabile: la ricerca estenuante notturna di un assorbente fra baraccopoli e agglomerati fatiscenti da parte della giovane pugile protagonista.

Kubrador (The Bet Collector) di Jeffrey Jeturian (Filippine)
Corrusco, sporco al punto giusto. Opera quarta.

Manoro di Dante Mendoza (Filippine
Kaleldo di Dante Mendoza (Filippine)
Probabilmente è un grande regista. Questi sono il suo secondo e il suo terzo film. Il primo vero erede di Lino Brocka.

The White Silk Dress di Huynh Lun (Vietnam)
Melodramma della retorica, con l’intensità e i difetti che solo un classico si può permettere.

Rain Dogs di Ho Yuang (Malesia)
Film quasi perfetto. Di grande, semplice, intensità.

Before We Fall in Love Again di James Lee (Malesia)
Terzo film. Meno libero e ispirato dei lavori precedenti (corti compresi). Ma Lee in patria è una istituzione e come produttore e direttore della fotografia compare in numerosi esordi altrui. E qui, nel finale, piazza una vertigine fantasmatica che ribalta le debolezze del film.

The Bird House di EngYow Khoo (Malesia)
La precisione spietata della solitudine.

Chaharshanbe-soori (FireWorks Wednesday) di Asghar Farhadi (Iran)
Ha un piglio cukoriano con cui costruisce una girandola sonora e filmica comica e d’amore, che veramente non ho mai visto in un film iraniano. Opera terza.

Parole di Mehdi Nourbakhsh (Iran)
Tutto ciò che sembra di maniera, qui invece si rivela finalmente impulso per un taglio e una ricerca del ‘plan’, di nuovo, molto poco iraniani.

Looking Through di Maani Petgar (Iran)
Ex assistente di Amir Naderi. Ancora un detour digitale che si fa film per ragionare sul mezzo.

Café Setareh di Saman Moghadam (Iran)
All’inizio e per un po’ un film denso di corpi e di passioni notturne molto ben impastate.. Poi si perde, con un recupero nel finale..

The Kandelous Garden di Iraj Karimi (Iran)
Oggetto indecifrabile. Diviso in due parti parallele: quelle in flash-back hanno il pregio di risultare inclassificabili.

Le dernier homme di Ghassn Salhab (Libano)
Un vampiro a Beirut. In realtà il sangue è di tutti gli altri. Slittamento poetico-politico nella notte mediorientale.

Close to Home di Dalia Hager (Israele)
Molto di contenuto, ma con una leggerezza dolciastra per certi versi inaspettata.

13.
martedì 10 ottobre 2006

Oggi è morta Danièle Huillet. È morta ieri sera - l’ho saputo stamane, era qualche mese che sapeva di doversene andare. Ho una lettera, non finita, indirizzata a lei e a Straub per parlargli di Quei loro incontri.

Per ore il telefono ha squillato. Esiste una comunità invisibile, nonostante tutto. È sempre la morte a raggranellare l’invisibile. Con df decidiamo di andare in macchina a Parigi per il funerale (non abbiamo i soldi per l’aereo).

Sono ore che rileggo quel loro libro, Scritti cinematografici. All’inizio l’ho preso in mano per vedere delle fotografie di lei. Mi tormenta l’ultima immagine di Quei loro incontri con la macchina che muove verso il cielo e sull’azzurro c’è un cavo elettrico.

So che anche questo c’entra con Danièle. Lo so da queste parole di suo marito: “Tutta l’arte del cinematografo non è altro che l’applicazione dello spazio al tempo. Nessuno potrà essere promosso maestro di detta arte cinematografica che non sia di buona vita e costumi”.

Che sorpresa l’avverarsi del caso! Leggendo Aurora di Nietzsche sulla morale e leggendo questo Rossellini citato da Straub: “In Paisà quando il negro si addormenta, il ragazzino gli dice: “Guarda che se ti addormenti ti rubo le scarpe”. Il negro si addormenta e il ragazzino gli ruba le scarpe. È giusto, è normale, è quel gioco straordinario in cui si situano i limiti della morale”.

Non mi mancheranno i film di Danièle, ma il sapere che su questa terra non c’è più una persona che faceva sperare in un mondo diverso da questo. (Al bar, poco fa, un bambino biondo dal viso da adulto ha speso due euro per un gelato e, preso in giro dal barista, ha risposto con aria sorniona “Sono i risparmi mia”. Ha detto ‘mia’, in dialetto, ma ha anche usato la parola risparmi, che non sentivo da tanto).

Di Danièle mi mancheranno la severità e la tenerezza.