martedì 18 settembre 2007

Il corso delle cose

pubblicato su NAZIONE INDIANA il 16 ottobre 2007

La bella estate ovvero La ballata del (cinema) lavavetri



Mi sarei dovuto arrestare al titolo. Non all’esattezza funerea dell’eco pavesiana, ma alla secchezza del lavoro d’inconscio veggente che si chiama cinema (che è origine copia plagio scarto deviazione generazione morte: ‘la ballata del lavavetri’ si intitolava film non dei migliori – italiano? polacco? – di Peter Del Monte). E dis-mettere subito, nel vuoto d’argomenti che svolazza sotto la canicola - cioè chiudere in men che non si dica la questione risibile che nasconde ed è indicatore di ben altro: a fare schifo non è il derelitto formicaio appostato ai semafori d’incrocio, né l’inesistente racket, ma la vigliaccheria mediobenpensante di quello che accelera, di quell’altro che aziona i tergicristalli, nessuno capace di un semplice no (è a questo circo di piccole inciviltà e grande ipocrisia che i sindaci assicurano protezione).

Invece l’arresto arriva sulla parole. Sulla gigantesca e illusoria gabbia chiamata comunicazione che confonde le dichiarazioni con le notizie, il dibattersi del senso con millantate esigenze collettive. E così si ordiscono trame e si appendono vuote stampelline che diventano – in questo assordante belniente - motivi politici: sicurezza, legalità, civiltà (qualche riga più sopra scappata a me pure, nella sua versione altrettanto ipocritamente privativa). L’alibi è lo stesso di chi crede che per dire democrazia basti avere il diritto di voto, né di destra né di sinistra, proseguendo nel frattempo nel progetto diffuso di continue limitazioni delle libertà individuali. Vantate deportazioni di massa di rom e carcere per tutti, per chi lava un vetro, per chi fa un graffito, per chi accende un fumogeno allo stadio, per chi si fuma uno spinello, sono solo la superficie dell’ignobile impianto a-morale dell’etica di Stato. “Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo per scoprire su di esso nient’altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient’altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza”. L’ignoranza, del resto, è la più grande delle cospirazioni.

Poi c’è l’altra parola: italiano. Rileggendo lo Scalfari del 2 settembre (“la Repubblica”: La crisi di un cinema senza linguaggio), si capisce subito che non di cinema si sta parlando (non se ne parla mai, ne siamo tutti parlati, ecco perché chiunque ne può scrivere). Non dell’interferenza che l’immagine comunque produce nel gigantesco proliferare moebiusiano di controllori e controllati (vedere fra gli altri l’ultimo De Palma: le guerre cominciano con le bombe e finiscono con/su youtube). No, si sta parlando di cinema italiano. E a seguire, tutto il ben noto armamentario accademico: crisi di valori, linguaggio, rappresentazione etc. Più che di cinema italiano sarebbe interessante scrivere la storia della cecità, dell’affollarsi più che secolare di non vedenti, convinti dell’esistenza di un’immagine nazionale, sicuri che ci sia una bellezza nel farsi specchio della società. Tanto che non riescono a spiegarsi la sovra-nazionalità dell’immagine di Stato di una Leni Riefenstahl, o di uno Dziga Vertov, oppure, come Galli Della Loggia, proprio non possono accettare che la ‘perfezione’ neorealista di Rossellini non sia Roma città aperta, ma Cartesius, e questo perché il neorealismo non è mai stato specchio di nulla, rappresentazione di niente, se non dello stato eccedente dell’immagine rispetto al reale, quella fuga in avanti che allentava i processi di causa-effetto (industrialmente definiti sceneggiatura), che ri-scriveva il mondo prima ancora che il mondo sapesse de-scriversi. E allora, come il cittadino infastidito dal lavavetri, spingono sul pedale dell’acceleratore e si puliscono la coscienza parlando di crisi di valori. Non a caso il genio assoluto del Rossellini televisivo, oggi completamente dimenticato, volutamente osteggiato e esorcizzato, già parlava comunque di un necessario “rammendo della specie umana”.

Ammettendo pure che abbia un senso oggi parlare di cinema italiano (e russo inglese americano egiziano indiano francese sudafricano), della sua scarsa incidenza, è viceversa proprio il suo perenne stato di nebulosa, se non altro perché mette in dubbio anzitutto l’atto dello scrivere, a essere affascinante. Non a caso la lista di Scalfari si ferma ai forse e ai Moretti, Muccino, Tornatore, Verdone, dimostrando solo quello che già sappiamo leggendo le pagine degli spettacoli del ‘rivoluzionario’ giornale da lui fondato, e cioè che finge e occulta l’inesistenza del 90% del cinema mondiale. Ma, per limitarsi all’Italia, meglio appuntarsi a futura memoria una lista di grandi senza nazione: Cottafavi, Grifi, Citti, Bargellini, Bava, Freda, Amico, Lattuada, Ferreri, Troisi, Argento, De Bernardi, Ciprì e Maresco. E poi Cicero, Laurenti, Ferroni, Questi, Castellari, Fulci, Di Leo, Corbucci, Margheriti. E poi Calogero, Martone, Gaudino, Sandri. E poi Comencini, Monicelli, Risi. E poi Momo, Rondolino, Staino, Santini, Caligari, Eronico. E poi Soavi, De Lillo, Segatori, Rezza, Benigni, Piscicelli, Guadagnino, Garrone, Pozzessere, Capuano, Incerti (mi scuso con gli assenti, ma chiunque è degno di non-esserci, basta una sola sequenza in cento film ancora da fare). Nessuna voglia di fornire un alibi alla parola scelta come traiettoria non sistematica, il cui unico sistema è il frammento, lo spazio nero bucato, perché è l’immagine, non l’immagine ‘italiana’, a svuotarsi e a moltiplicarsi per non darsi a vedere, per non concedersi il vedere.

Forse questa notte custodisce quella veglia che faceva dire a Blanchot, che lo faceva sperare, che non si fosse ancora e mai scrittori, e che quindi le immagini, anche quelle meno ‘degne’ di essere ri-conosciute e parlate, serbassero una zona d’impersonalità da cui fosse possibile trarre un orizzonte, una linea così infuocata e incerta nel suo celibato estremo, da estrarre dal vuoto una scrittura politica, cioè ‘altra’ quanto basta a circolare, raccontare, agire. Il confine è sottile, visto che il non-essere che vorrebbe essere parlato e parlante, ha come prima tentazione quella di rappresentarsi o di dare una rappresentazione. La questione del cinema italiano è sempre questa: non filma, ma pensa che le immagini servano a rappresentare la realtà. Se il cinema fosse un linguaggio, non se ne parlerebbe. Invece si cercano le parole. Il linguaggio è dei giornalisti. E “non si scampa alla volgarità dell’azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione di Stato”.