domenica 2 dicembre 2007

Vanitas (5)

Vanitas: contro la comunicazione


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Il ‘sistema-cinema’? Eccolo.
Si comincia con le scuole (di cinema), unanimemente basate sulla dittatura della sceneggiatura - inutili edifici pensati per non far pensare.
Gli Stati - segnatamente le cosiddette democrazie occidentali - mantengono intatta una logica di finanziamento per cui a essere ‘pagate’ sono le sceneggiature (e a pagare i film): non importa l’immagine, ma il controllo sull’immagine.
Produttori, distributori, giornalisti e ora anche regioni, comuni, province, film commission, feste e festival, sono un’unica congerie di connivenza e mantenimento di quanto ‘sistemato’.
La visibilità, il successo addirittura, non riguardano il film, ma derivano dai codici e dai mezzi di comunicazione, il succo e il nucleo del sistema, cioè quanto di più drogato, prezzolato e ossessivamente ipocrita si possa concepire.
L’unica preoccupazione è coinvolgere le anomalie nel sistema, in modo che tutto sia (nella) media, che nulla più si mostri irriducibile, o che mantenga intatta la cultura del conflitto (che è l’unica cultura degna di questo nome).
E in questa melma ognuno fa tranquillamente i propri comodi, dicendo tutto e il contrario di tutto, negando l’evidenza, senza alcuna dignità personale, senza alcun rispetto per la propria storia, né per quella altrui.
Tutto è virtuale, soprattutto il lavoro.

Ecco allora, per vanità, e sicuramente con vane finalità, una ulteriore ‘dis-attenzione’ al cinema, sottoforma di memorie di un selezionatore e di frequentatore di festival. Mappe e diari sparsi, pagine strappate di titoli, sequenze, piccole cose, brevi accensioni, siderali analogie, di tutto quello che non si fa a tempo a comunicare (perchè non si crede alla comunicazione).
Vanamente, si tenta una lista di cose che altrimenti andrebbero perdute. Dicendo basta col privilegio di aver fatto parte di un comitato di selezione (quello del fu Torino Film Festival), cioè di avere goduto della fortuna di vedere qualche film più degli altri.

Mappe e Diari (2006)

1.
Remorques (1942) di Jean Gremillon
Miami Vice (2006) di Michael Mann
Due sequenze, il cui virtuosismo - spinto al limite del mai visto e dell’inspiegabile (è ancora questo che si sogna al cinema?) - si auto-cancella o riesce a tradursi in un fatto filmico, ma con il vigore e la dolcezza di un colpo di vento. Succede di rado: perdere di vista la cinepresa e non sapere più come ha fatto a esserci (Mann); vederla uscire perentoria e serena da una finestra chiusa - con un arretramento che è anche un carrello a scoprire a metà fra un dolly e uno zoom, entrambi ‘inesistenti’ all’epoca - passando attraverso il vetro, mentre tutto il mondo le crolla addosso (Gremillon). (Vista cosa simile anni fa in Contact di Zemeckis. E per brevi istanti provata la stessa sensazione con X-Men 3 di Bret Rattner).

2.
Fino a non essere più tanto sicuri dell’ossessione che è il tempo, e al contrario è probabile che il tempo sia ossessionato dal cinema. In ogni caso non la smettono di ‘dirlo’:
“Il mio cinema è una sorta di grande presente” (Claude Chabrol)
“Il presente è fatto di tanti pezzetti di passato” (Joan Crawford in Foglie d’autunno (1956) di Robert Aldrich)
“Il tempo è implacabile” (Robert Duvall in Broken Trail, 2006, di Walter Hill)
“Il tempo non passa, siamo noi che ci passiamo attraverso” (Jour après jours, 2006, di Jean-Daniel Pollet e Jean-Paul Fargier)

3.
Klimt (2006) di Raoul Ruiz
Jours tranquilles à Clichy (1990) di Claude Chabrol
Investigating Sex (1991) di Alan Rudolph
Black Book (2006) di Paul Verhoeven
Fino a ridestarsi nudi. Tre nudi di donna (tre sequenze nude e di nudità) che sono diafani d’invisibile (nel bianco pelle glabro e nel rosso chiaro pube: si sa, le donne sono delle perfezioniste), e si sdoppiano, rallentati e sovrimpressi, come carne areiforme, come tutte le immagini.

4.
MPD Psycho (2000) di Takashi Miike
Pioggia nera (1989) di Imamura Shoei
E forse - dell’acido sterminio nucleare e seriale - i corpi lasceranno il lampo di luce che lo precede (ricordo di Terminator 2 di Cameron).

5.
Il cimitero del sole di Nagisa Oshima
Tutto un film girato in quel lampo, con l’immagine che ‘si trema’, e l’occhio costretto a vedere nelle crepe - qualcosa che, a memoria, non si è mai più visto (in precedenza, si: Germania anno zero di Rossellini).

6.
Pro-Life (2006)di John Carpenter
Imprint (2006) di Takashi Miike
Lágrima Pantera (1972) di Julio Bressane
C’è chi, questo accecamento, arriva a filmarlo senza occhi. Ma non è tanto lo sguardo della macchina a mancare, è il sottrarsi in sé, e dunque ritornare alla visione che è già lì (prima della macchina). (Ancora: Rossellini).

7.
Morte all’orecchio di Van Gogh (1968) di Piero Bargellini
Trasfermento di modulazione (1969) di Piero Bargellini
Erinnerung an die zukunft (1970) di Piero Bargellini
Dove incominciano le gambe (1971) di Piero Bargellini
Due silenzi e un’armonica (1974) di Piero Bargellini
Prima della macchina non significa solo affollarsi di fantasmi, ma ricondurre il fantasma alla materia, lavorando direttamente il materiale. Quanto più si è ciechi, tanto più l’immagine si vede.

8.
Dante no es únicamente severo (1967) di Joaquín Jordá e Jacinto Esteva Grewe
Más allá del espejo (2006) di Joaquín Jordá
Non è detto che (non) si veda. (La vita, Ruiz sarebbe d’accordo, e forse anche Kubrick, è una partita a scacchi. Non basta pre-vedere le mosse altrui, eppure è questa l’unica possibilità di salvarsi o di perdersi. L’insegnamento di Jordá è, nella cecità, di non fare affidamento sulla severità degli specchi. Non è quella - l’immagine).

9.
Dovessi realmente sceglierne dieci e solo dieci, rifarei la lista in piena contraddizione con quella pubblicata. Direi:

Quei loro incontri Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
The New World di Terrence Malick
INLAND EMPIRE di David Lynch
Black Book di Paul Verhoeven
Miami Vice di Michael Mann
Belle Toujours di Manoel de Oliveira
Time di Kim Ki-duk
Pro-Life di John Carpenter
Cuori di Alain Resnais
Juventude em Marcha di Pedro Costa

10.
Certa inevitabile cecità d’insieme trova salvezza nei nomi. Nelle liste c’è già tutta la luce necessaria. Nell’elenco si trama il dopo delle parole, come se fossero già state dette e scritte e superate. A ben vedere, una forma di rigore assoluto. Perciò la lista 2006 è:

Scorsese, Ioseliani, Gitai, Eastwood, Shyamalan, Tsukamoto, Argento, Sokurov, Pollet, Dwoskin, Ming-liang, Chabrol, Lopes, Moullet, Oshii, Kon, Zhangke, Friedkin, Dumont, To, Sissako, Kurosawa, Hill, Spielberg, De Palma, Jordá, Ruiz, Herzog, Altman, Bellocchio, Rattner, Makhmalbaf.

11.
C’è un film italiano non visto da - quasi - nessuno, una di quelle cose italiane imperfette, che hanno il pregio (il privilegio?) di non essere selezionabili da nessun festival, perchè nell’imperfezione nascondono lo slancio che costringerebbe selezionatori e spettatori a rischiare qualcosa in prima persona. E anche questo è parte essenziale del sistema: declinare ogni responsabilità. Per chi mai lo vedrà, c’è un regista italiano di nome Vittorio Rifranti che ha fatto un film intitolato Tagliare le parti in grigio, che si assume la responsabilità dei corpi che filma, e laddove la sceneggiatura non lo costringe al taglio (sul più bello la maledizione del dialogo...), riesce anche a illuminarli (ovviamente ci si è messa anche la ‘critica’, che per meglio ‘venderlo’ non si occupa del film, ma del suo contenuto: body art, sadomaso, etc.).

12.

Mappa medio-O-rientale

Nessuno di questi film è un capolavoro. La maggior parte sono opere prime o quasi. Tutte hanno almeno una sequenza o una ‘mossa’ visiva che non si dimentica. È l’ultima mappa.

Green Mind, Metal Bats di Kazuyoshi Kumakiri (Giappone)
Il regista è più che conosciuto in Europa. Questo è il suo film più stralunato, livido, autunnale. Compare in una piccola parte il grande Koji Wakamatsu.

Anime vermiglie di Masaki Iwana (Giappone)
Opera prima. Film di folle manierismo (bianco e nero, cerebralismi vari), ma con virate hard inattese, che si consuma tutto nel porno che sarebbe potuto essere. Le scene hard hanno come protagonista una sconosciuta attrice italiana.

Notebook of Life di Makoto Itakura (Giappone)
La serietà di una prospettiva calligrafica. Senza punte particolari, ma senza orpelli (che è già qualcosa).

The Curse di Koji Shiraishi (Giappone)
Opera prima. L’ipotesi ‘alla moda’ - docufiction horror paranormale - ha il merito, o l’inconsapevolezza, di vedersi trascinare nell’assoluta indistinzione documentaria.

The Pavilion Salamandre di Tominaga Masanori (Giappone)
Al suo primo film. Il regista proviene dalla televisione e - assolutamente incompreso - tracima tutto, da Godard a Suzuki. Se ne riparlerà.

Outside di Wang Wo (Cina)
Una specie di cinema-formicaio, che ha il difetto di esplicitare troppo l’assunto teorico. Occhio aperto moltiplicato sul fuori, metafora di un paese sterminato in cui evidentemente a sterminarsi in mille derive sono gli occhi stessi che lo abitano.

Pleasures of Ordinary di Xia Peng (Cina)
Una delle scoperte del 2006. Si veda conversazione con l’autore sul numero precedente di “Filmcritica”.

Street Punk di Zhang Xiao Bing (Cina)
Folle e quasi fuori squadra. Indifferente a sceneggiature e modalità ‘cinesi’. Svagato e ossessivo. Geograficamente impazzito, con un quartiere ridotto a cunicoli di cui è impossibile ricostruire il perimetro. Un po’ confusionario nella seconda parte.

Bliss di Sheng Zhimin (Cina)
Prodotto da Fruit Chan, ha uno sguardo sospeso e inventivo sul farsi metropolitano. Notevole.

Tian Li di Tian Song (Cina)
Documentario duro, totalmente operaio, completamente di parola.



Binglan (Phoenix) di Fang Li (Cina)
Yuanli (Distance) di Tie Wei (Cina)
Betelnut di Heng Yang (Cina)
Tre film non proprio innovativi, ma che dimostrano quanto ha contato in questi anni un cineasta come Jia Zhangke.

Joeun baewoo (A Great Actor) di Shin Yeon-Shick (Sud Corea)
Corsa generazionale con coda rivettiana. Quanto più si allunga, tanto più setaccia la filmicità assente del digitale.

Digital Short Films by Three Filmmakers 2006: Talk to Her (Sud Corea)
Dei tre episodi, quello di Eric Khoo va assolutamente recuperato, per la sua dialettica impura fra orizzonte vitale e orizzonte digitale.

Love Phobia di Kang, Ji-eun (Sud Corea)
Sulla scia di Signs di Shyamalan (ampiamente citato), un folle melodramma fantasy strappalacrime.

Monopoly di Hang-Pae Yi (Sud Corea)
Suadente, patinato, ma queste volute possono ipnotizzare.

Bloody Tie di Ho Choi (Sud Corea)
Un poliziesco duro, con degli strappi notturni violentissimi.

Bewitching Attraction di Ha Lee (Sud Corea)
Commedia. Bello il ritmo claudicante e arreso a se stesso.

Silk di Su Chao Pin (Sud Corea)
Il filo invisibile che s-collega l’Oriente. Sottovalutato a Cannes.

Aachi&Ssipak di Bum-jin Joe (Sud Corea)
Il più perverso e ‘flautolento’ film d’animazione visto da molti anni. Un hard… caco-fonico.

Sunday in August di Lee Jin-woo (Sud Corea)
Secco e deciso come raramente accade di vedere (perciò al contrario si spera sempre di vederlo frantumarsi…)

Daisy di Andrew Lau (Hong Kong)
Regista hongkongese, attori sudcoreani, set olandese. Sul terreno in cui John Woo è stato il più grande, un ritorno al ‘canone’ che non intacca il maestro, ma lo addensa nella ripetizione.

Dog Bite Dog di Soi Cheang (Hong Kong)
Forcluso nella sua asprezza testarda, nel suo non volersi concludere.

The Bicycle Odissey di Li Chih-chiang (Taiwan)
Il mondo attraversato in bicicletta. Wakamatsu fa subito scuola.

Desincarnation di Zhi-Ju Lin (Taiwan)
Quin invece è la scia di spettri di Kurosawa Kiyoshi a fare da riferimento, a tal punto da non dare più riferimenti…

Podokkhep (Footsteps) di Suman Ghosh (India)
Entra lentamente nel lessico familiare e ha un certo gusto per il posizionamento della macchina. Bisogna anche dire che, raggiunto un certo ritmo, non lo supera mai

Love for Share di Nia Dinata (Indonesia)
Ancora l’imperfezione, ma da ogni rivolo e ogni incongruità trasuda una carnalità potente.

In da red corner di Dado C. Lumibao (Filippine)
Ha delle cose bruttissime (autentici vezzi: tagliuzzi, velocizzazioni ralenti), che ne disturbano la forza complessiva. Ma include una sequenza memorabile: la ricerca estenuante notturna di un assorbente fra baraccopoli e agglomerati fatiscenti da parte della giovane pugile protagonista.

Kubrador (The Bet Collector) di Jeffrey Jeturian (Filippine)
Corrusco, sporco al punto giusto. Opera quarta.

Manoro di Dante Mendoza (Filippine
Kaleldo di Dante Mendoza (Filippine)
Probabilmente è un grande regista. Questi sono il suo secondo e il suo terzo film. Il primo vero erede di Lino Brocka.

The White Silk Dress di Huynh Lun (Vietnam)
Melodramma della retorica, con l’intensità e i difetti che solo un classico si può permettere.

Rain Dogs di Ho Yuang (Malesia)
Film quasi perfetto. Di grande, semplice, intensità.

Before We Fall in Love Again di James Lee (Malesia)
Terzo film. Meno libero e ispirato dei lavori precedenti (corti compresi). Ma Lee in patria è una istituzione e come produttore e direttore della fotografia compare in numerosi esordi altrui. E qui, nel finale, piazza una vertigine fantasmatica che ribalta le debolezze del film.

The Bird House di EngYow Khoo (Malesia)
La precisione spietata della solitudine.

Chaharshanbe-soori (FireWorks Wednesday) di Asghar Farhadi (Iran)
Ha un piglio cukoriano con cui costruisce una girandola sonora e filmica comica e d’amore, che veramente non ho mai visto in un film iraniano. Opera terza.

Parole di Mehdi Nourbakhsh (Iran)
Tutto ciò che sembra di maniera, qui invece si rivela finalmente impulso per un taglio e una ricerca del ‘plan’, di nuovo, molto poco iraniani.

Looking Through di Maani Petgar (Iran)
Ex assistente di Amir Naderi. Ancora un detour digitale che si fa film per ragionare sul mezzo.

Café Setareh di Saman Moghadam (Iran)
All’inizio e per un po’ un film denso di corpi e di passioni notturne molto ben impastate.. Poi si perde, con un recupero nel finale..

The Kandelous Garden di Iraj Karimi (Iran)
Oggetto indecifrabile. Diviso in due parti parallele: quelle in flash-back hanno il pregio di risultare inclassificabili.

Le dernier homme di Ghassn Salhab (Libano)
Un vampiro a Beirut. In realtà il sangue è di tutti gli altri. Slittamento poetico-politico nella notte mediorientale.

Close to Home di Dalia Hager (Israele)
Molto di contenuto, ma con una leggerezza dolciastra per certi versi inaspettata.

13.
martedì 10 ottobre 2006

Oggi è morta Danièle Huillet. È morta ieri sera - l’ho saputo stamane, era qualche mese che sapeva di doversene andare. Ho una lettera, non finita, indirizzata a lei e a Straub per parlargli di Quei loro incontri.

Per ore il telefono ha squillato. Esiste una comunità invisibile, nonostante tutto. È sempre la morte a raggranellare l’invisibile. Con df decidiamo di andare in macchina a Parigi per il funerale (non abbiamo i soldi per l’aereo).

Sono ore che rileggo quel loro libro, Scritti cinematografici. All’inizio l’ho preso in mano per vedere delle fotografie di lei. Mi tormenta l’ultima immagine di Quei loro incontri con la macchina che muove verso il cielo e sull’azzurro c’è un cavo elettrico.

So che anche questo c’entra con Danièle. Lo so da queste parole di suo marito: “Tutta l’arte del cinematografo non è altro che l’applicazione dello spazio al tempo. Nessuno potrà essere promosso maestro di detta arte cinematografica che non sia di buona vita e costumi”.

Che sorpresa l’avverarsi del caso! Leggendo Aurora di Nietzsche sulla morale e leggendo questo Rossellini citato da Straub: “In Paisà quando il negro si addormenta, il ragazzino gli dice: “Guarda che se ti addormenti ti rubo le scarpe”. Il negro si addormenta e il ragazzino gli ruba le scarpe. È giusto, è normale, è quel gioco straordinario in cui si situano i limiti della morale”.

Non mi mancheranno i film di Danièle, ma il sapere che su questa terra non c’è più una persona che faceva sperare in un mondo diverso da questo. (Al bar, poco fa, un bambino biondo dal viso da adulto ha speso due euro per un gelato e, preso in giro dal barista, ha risposto con aria sorniona “Sono i risparmi mia”. Ha detto ‘mia’, in dialetto, ma ha anche usato la parola risparmi, che non sentivo da tanto).

Di Danièle mi mancheranno la severità e la tenerezza.

mercoledì 28 novembre 2007

Il digitale non esiste - aforismi (101-120)

101. Parlando di immagini bisogna ammettere che qualunque scelta le riguardi è figlia della loro e della nostra vanità.

102. La grana dell’immagine è più interessante della sua origine.

103. Per questo, prima del digitale, la sporcizia del video e la sua diversa intensità elettronica si erano dimostrate, per l’immagine, benefici tumori.

104. In Autofocus di Schrader l’attore in crisi pensa se stesso come eterna differita, accecato dal tempo continuamente sottratto e ripetuto del ri-vedersi, ri-godersi, ri-montarsi, dell’essersi guardati.

105. Il tempo è un nastro riavvolgibile.

106. Indeciso se morire di cancro o morire di cancro filmato da Wenders, il cineasta dell’immagine mutante Nicholas Ray, visionando il suo ultimo film, riconosce l’insulsaggine dell’offerta infinita di formati. 8, 16, 35, video: “Stronzate di questo tipo”.

107. “Lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che consentono di arrivare a prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione” (G. Debord).

108. Già in The Chelsea Girls Warhol ‘vede’ che il proliferare di soglie d’attenzione illusorie, di doppi, di eccessi, di sospensioni, di dirette e di differite, spinge l’immagine a esibire la propria naturale propensione all’automatico, all’impersonale, al farsi sentire della macchina esattamente nel punto in cui tende a svanire. E viceversa.

109. Televisione è la parola?

110. Quando Rossellini passa a lavorare per la televisione, non smette di fare film, ma comincia a dubitare della consistenza stessa delle cose.

111. Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata.

112. Sospettare anzitutto del cinema. Sospettare di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose.

113. Rossellini ha insegnato che parole come comunicazione, immagine, cinema, televisione, storia ecc. hanno significato solo se si ha il coraggio di raggiungere la quotidianità media del vedere, di innestarsi nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio. E non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito.

114. Cosa significa fare un film? Cosa vuol dire essere regista? Null’altro che trovare la giusta distanza dal film e dalla regia.

115. Era questo che intendeva il Dada quando provava a porre in pausa, a provocare un intermezzo, all’interno del meraviglioso e inarrestabile progredire sociale?

116. L’immagine dadaista, mediante un apparato tecnologico che contempla nella sua macchinalità anche e soprattutto la propria negazione, in qualche modo prefigura un’immagine - digitale? - che per esserci deve letteralmente negare l’esistenza fisica dell’immagine stessa e dichiararsi inautentica.

117. L’innesto di questa frammentazione e disarticolazione in un turbine industrialmente strutturato di lapsus, interruzioni, slittamenti, scomposizioni, evidenze, quadri sghembi, miti, culti, stati d’intensità sempre uguali e sempre diversi, si chiama Hollywood.

118. Blockbuster significa anche: filmicità della macchina che evapora se stessa nell’immagine, quasi rendendo invisibili le proprie fondanti articolazioni industriali.

119. “I film non si fanno, si ri-fanno” (I. Thalberg).

120. Non a caso i primi a sparire sono i registi, i cosiddetti autori.

venerdì 23 novembre 2007

VITTORIO COTTAFAVI

pubblicato su "Alias" - Il manifesto del 26 maggio 2007
Lorenzo Esposito e Donatello Fumarola

Vittorio Cottafavi - La conquista dell’immagine (televisiva)


Quando, fra il 1981 e il 1985, Vittorio Cottafavi firma i suoi due ultimi film prodotti dalla Rai, Maria Zef e Il diavolo sulle colline, la televisione è già lo specchio di un mondo in frantumi. La riduzione di spazi di pensiero, parallela all’occupazione dello spazio-tempo da parte dell’ideologia dell’inserzione, riguarda da vicino la rabbia e il dolore di queste immagini ultime. Immagini perfette, che dell’esperienza cine-televisiva, forniscono la lezione magistrale attraverso il racconto profetico della fine della civiltà contadina (Maria Zef), e si innestano nel punto nevralgico della crisi - come dimostrano i nostri giorni, mai rientrata del tutto - politica, economica e sociale italiana (la Torino del 1937 raccontata da Pavese ne Il diavolo sulle colline). Immagini perfettamente politiche dunque, per la loro capacità di trovare un tempo filmico, di riconsegnare un sonoro a un paesaggio muto, a una memoria dispersa, a un’umanità estranea. Immagini che esaltano la parola con piglio straubiano, recuperando alla verbalità la forza culturale del conflitto, della differenza, superando d’un balzo i germi pericolosissimi dell’indolenza, della miseria, e modellando un lascito malinconico, ma anche incline al risveglio, alla ripresa, contrario all’inerzia.
Non diversamente da quanto accadutogli lungo tutta la sua carriera, Cottafavi faceva fronte all’ulteriore isolamento, al reiterarsi dell’equivoco che voleva la sua immagine, così severa e distaccata, una buona composizione e niente più, scambiandone la volontà straniata per forma chiusa e inerte, mentre invece, insieme al lavoro parallelo di Rossellini, ad oggi resta il tentativo più intenso e lucido di difesa dell’uomo-spettatore. Nessuno come Cottafavi si è preoccupato di rispettare la posizione semplice di chi osserva e di farne il fondamento di una storia di cinema. Nessuno come lui sapeva che l’immagine precede il film, ed è già parte del mondo di chi si accinge a guardarlo. Così risuona il suo insegnamento: “Per paradosso diciamo: invece di insegnare la storia del mondo, facciamo degli spettacoli che danno la visione del mondo”.

La verità delle apparenze
È forse inevitabile, per colui che sperimenta la doppia faccia cine-televisiva, innestare il proprio discorso direttamente nell’andare in crisi del mondo (di quanto del mondo appare) e verificarne le possibilità di resistenza e di penetrazione rispetto alla superficie. Allo stesso modo in cui la tv, fin dall’inizio, e pur nella sua brutale espressività, si rivela più abissalmente filmica del film.
Una dialettica e uno scivolamento intrinsechi alla scena televisiva, alla sua natura, al suo potenziale comprendere (e farsi comprendere da) ogni possibile scenario, di cui Cottafavi ripercorre le tappe, dal teatral-narrativo al cinetico puro, tracciando anzitutto un gioco di sponde fra interno e esterno, che risulta immediatamente deviante rispetto a cosa era e a cosa ancora è la televisione di messa in scena (dalle prime pirotecniche ‘cose’ televisive, Sette piccole croci e Hansel e Gretel, del 1957, a La spada di Damocle, del ‘58, La trincea, del ‘61, Il mondo è una prigione, del ‘62, fino a Con gli occhi dell’occidente, del ‘79). È come se fosse proprio l’automatico scambio fra sceneggiato e teatro filmato, a scandire la possibilità storica incarnata dal piccolo schermo: prima discussa attraverso l’esplicitazione di questo scambio, e poi portata sul punto limite di messa in crisi, oltre il quale si apre la strada che esce dallo studio, dissolvendone la matrice teatrale e proiettandosi verso quel fuoricampo che, negli anni a venire, la tv ha capitalizzato ferocemente (facendo del mondo fuori un enorme studio televisivo).
Per Cottafavi questo anelito, questa spinta a fuoriuscire, è già tutta sintetizzata nel percorso non neorealista degli inizi del suo cinema - parallelamente a Germi, Lattuada, Antonioni, Pietrangeli.. - depositario piuttosto della lezione di René Clair, Lubitsch, Capra, Cocteau, e soprattutto di Renoir (e per altro verso di John Ford, King Vidor, Raoul Walsh..): valga per tutti La fiamma che non si spegne (del 1949), un film che sminuisce a ogni scena il proprio ‘contenuto’ (la celebrazione delle gesta del carabiniere Salvo D’Acquisto durante l’occupazione tedesca), assunto come maschera dietro cui si scatena la furia realizzativa sperimentale e il gusto geometrico di un cineasta grande astrattista, che avrebbe trovato sponde migliori, e avuto sicuramente più fortuna, nella Hollywood del tempo.
Quando poi nel ‘63 Cottafavi confonde definitivamente le cose, infrangendo gli argini degli studi televisivi per andare a girare interamente in esterni con una piccola troupe e una camera 16mm Il taglio del bosco, dimostra come a interessargli non sia tanto il “realismo” in sé - anche se gli offre migliori chances di riuscita rispetto agli esiti spesso incerti dei lavori realizzati negli studi Rai - quanto invece le possibilità di messa in scena in un set reale, di un discorso sul cinema che l’ostracismo del sistema produttivo italiano gli aveva impedito di proseguire (per questo, non per vocazione o per volontà, approdò in televisione). Discorso mai interrotto, ma rilanciato ogni volta e condotto fino all’atipica soluzione all’interno della serie “Teatro inchiesta”, dove Cottafavi, con Missione Wiesenthal e Il complotto di luglio (entrambi del ‘67) arriva a sceneggiare il repertorio, mostrando come tutto in tv - come tutta la tv - non sia altro che repertorio (a partire dal presentatore, ‘personaggio’ della vicenda non meno di Adolf Eichmann o di Hitler). In questo senso è come se Cottafavi, per altra via (opposta?), giungesse alla medesima concezione enciclopedica di Rossellini, solo, a partire da una procedura filosofica primariamente e precisamente mediata dalla questione tecnica, questione che approfondirà e sonderà inventando soluzioni che la televisione ignorava, contribuendo non poco a dotarla di strumenti linguistici. Tra i due lo scarto è sottile. Cottafavi è cinema che per sapere deve sperimentare il cinema. Rossellini è cinema che per sapere deve sperimentare il sapere (entrambi finendo per sapere in quanto saputi dall’immagine).

Le in-apparenze del vero
Ecco perché verità e menzogna sono un buon punto di partenza, la trama da sviluppare e sciogliere attraverso una conquista dell’immagine (è il titolo di uno dei suoi testi teorici), ossia del luogo in cui le apparenze possono trovare una verità. Ma non tutte le verità (storiche, morali o personali) trovano una trasparenza. Per Cottafavi è necessario anzitutto un lavoro duplice sul testo, sulla scrittura come possibilità del classico (che sia Sofocle, Euripide, Eschilo, Tolstoj, Dostoevski, Conrad, Greene, Chesterton, Pavese o Pirandello), e sul mezzo; rimessi in scena attraverso la consapevolezza (dei limiti) di una tecnica che li possa rappresentare, alludono e più spesso toccano una zona franca - di testualità, di immagini, di personaggi - che provoca uno scarto imprevisto, interno all’immagine, come se ne venisse continuamente preparato e poi filmato il crollo, il collasso di una narrazione cosiddetta televisiva. Sono esemplari in questo senso Le Troiane, Don Giovanni, o Il processo di Santa Teresa del Bambino Gesù, tutti realizzati nel ‘67, e ancora I lupi, del ‘69, Antigone, del ‘71, e I persiani, del ‘75, dove l’oggetto dello spettacolo viene spogliato dal suo mettersi in scena, e quello che più sembra interessare Cottafavi è il rapporto nudo dello spettatore con la scena tecnica (con il suo vuoto), la cui verità coincide con la sua combustione. Le Troiane è la messa in scena che finge la propria prova generale (anticipando il Rivette di Out 1), abbattendo il complotto comunicativo sotteso alla tv con l’intervallo annunciato da una voce fuori campo, esibito, che diventa per forza di cose il momento ‘clou’ dello spettacolo sospeso, con gli attori che fanno una pausa e si fumano una sigaretta per riposare e ritrovare la concentrazione. Uno spazio aperto assoluto in cui non c’è più testo (già manca la scena: lo studio di via Teulada dove è girato è totalmente spoglio), ma solo quest’intermezzo della durata, dove ognuno può scegliere di interrompere, distrarsi, fissarsi su un punto morto (la televisione?).
Il set diventa in Cottafavi lo spazio dove ogni verità deve poter apparire. Lo spazio e non il tempo, o lo spazio come tempo, come passaggio da una condizione a un’altra. Come se - nella convinzione (ingenua forse, ma è un merito) di una presunta medesima idoneità cine-televisiva - venisse a galla ciò che è sempre sbilanciato e conflittuale nell’immagine in sé (Cottafavi insiste a più riprese: il linguaggio è lo stesso, anche se della tv accusa le pesantezze, certe tendenze pachidermiche - “vorremmo parlare di linguaggio ma ancora oggi non ne siamo in grado”).
Allora, attraverso tutti questi interni e interiorità cave, e tutti questi esterni marziani (che dire della follia inventiva della Fantarca e della stralunata genialità di Operazione Vega? E della serialità unica e irripetibile dei Racconti di Padre Brown, di Quinta colonna, di Una pistola in vendita? O ancora di quel kolossal minimale e spietato che è Cristoforo Colombo, in bilico tra Welles, Herzog e de Oliveira, che avrà un seguito ideale nel pre-coppoliano La follia di Almayer?): esiste un metodo Cottafavi?
Certo non è solo Bertold Brecht, riproposto in una pratica che, a ben vederla oggi, era già altro allora. Brecht è stato la sponda immediata per uno che ha intuito la natura celibe di ogni immagine, che fingeva ogni volta il realismo del décor, dei costumi e del lavoro di saturazione degli eventi, per smascherare il ‘fantastico’ che c’è in ogni apparenza reale. Lo spettatore, allora, frana perché frana la verità, e non sarà più possibile identificarsi, bisognerà invece attivare tutti i lati della storia, tornare a spendersi sul già visto (e là dove ci si aspetterebbe un remake, come nel caso dei due Antigone, uno del ‘58 e l’altro del ‘71, o dei molti ritorni sulle vicende della Resistenza, o sui due Zoo di vetro del ’63 e del ’68, Cottafavi gioca invece a rifare disfacendo).
Per questo i suoi film si concentrano sul cambiamento, sullo stato mutante delle cose e degli accadimenti (lo dice bene Michel Mourlet, in una bella intervista anni sessanta: Cottafavi “sfrutta sistematicamente l’insediamento della crisi”). Per questo si interessa del film storico-mitologico (a cominciare dai film per il cinema Le legioni di Cleopatra, La rivolta dei gladiatori, Messalina Venere Imperatrice, I cento cavalieri), che al di là della giusta interpretazione post-felliniana (il film storico come film di fantascienza), pone un problema temporale: cos’è contemporaneo? In cosa sono contemporanei? Cioè non attuali, non ‘classici’, ma presi in un testa coda che la televisione col suo flusso a-temporale spinge al massimo grado di in-apparenza. In questo, per esempio, I cento cavalieri (1964) è già il film più vicino alla televisione di Rossellini, quello che più l’anticipa (allo stesso modo in cui Traviata ‘53 poteva essere accomunato a La paura..). “Bisogna essere contemporanei dell’avvenimento che si sta per raccontare” (Cottafavi). Rossellini diceva: fare la storia per intraprendere una sorta di rammendo della specie umana. Cottafavi è sulla stessa linea: rifare la storia per costringere l’uomo a prendersi in esame. Di chi è questa frase: “Il telefilm dovrebbe essere essenzialmente una informazione sull’uomo”, di chi dei due?

martedì 18 settembre 2007

Il corso delle cose

pubblicato su NAZIONE INDIANA il 16 ottobre 2007

La bella estate ovvero La ballata del (cinema) lavavetri



Mi sarei dovuto arrestare al titolo. Non all’esattezza funerea dell’eco pavesiana, ma alla secchezza del lavoro d’inconscio veggente che si chiama cinema (che è origine copia plagio scarto deviazione generazione morte: ‘la ballata del lavavetri’ si intitolava film non dei migliori – italiano? polacco? – di Peter Del Monte). E dis-mettere subito, nel vuoto d’argomenti che svolazza sotto la canicola - cioè chiudere in men che non si dica la questione risibile che nasconde ed è indicatore di ben altro: a fare schifo non è il derelitto formicaio appostato ai semafori d’incrocio, né l’inesistente racket, ma la vigliaccheria mediobenpensante di quello che accelera, di quell’altro che aziona i tergicristalli, nessuno capace di un semplice no (è a questo circo di piccole inciviltà e grande ipocrisia che i sindaci assicurano protezione).

Invece l’arresto arriva sulla parole. Sulla gigantesca e illusoria gabbia chiamata comunicazione che confonde le dichiarazioni con le notizie, il dibattersi del senso con millantate esigenze collettive. E così si ordiscono trame e si appendono vuote stampelline che diventano – in questo assordante belniente - motivi politici: sicurezza, legalità, civiltà (qualche riga più sopra scappata a me pure, nella sua versione altrettanto ipocritamente privativa). L’alibi è lo stesso di chi crede che per dire democrazia basti avere il diritto di voto, né di destra né di sinistra, proseguendo nel frattempo nel progetto diffuso di continue limitazioni delle libertà individuali. Vantate deportazioni di massa di rom e carcere per tutti, per chi lava un vetro, per chi fa un graffito, per chi accende un fumogeno allo stadio, per chi si fuma uno spinello, sono solo la superficie dell’ignobile impianto a-morale dell’etica di Stato. “Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo per scoprire su di esso nient’altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient’altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza”. L’ignoranza, del resto, è la più grande delle cospirazioni.

Poi c’è l’altra parola: italiano. Rileggendo lo Scalfari del 2 settembre (“la Repubblica”: La crisi di un cinema senza linguaggio), si capisce subito che non di cinema si sta parlando (non se ne parla mai, ne siamo tutti parlati, ecco perché chiunque ne può scrivere). Non dell’interferenza che l’immagine comunque produce nel gigantesco proliferare moebiusiano di controllori e controllati (vedere fra gli altri l’ultimo De Palma: le guerre cominciano con le bombe e finiscono con/su youtube). No, si sta parlando di cinema italiano. E a seguire, tutto il ben noto armamentario accademico: crisi di valori, linguaggio, rappresentazione etc. Più che di cinema italiano sarebbe interessante scrivere la storia della cecità, dell’affollarsi più che secolare di non vedenti, convinti dell’esistenza di un’immagine nazionale, sicuri che ci sia una bellezza nel farsi specchio della società. Tanto che non riescono a spiegarsi la sovra-nazionalità dell’immagine di Stato di una Leni Riefenstahl, o di uno Dziga Vertov, oppure, come Galli Della Loggia, proprio non possono accettare che la ‘perfezione’ neorealista di Rossellini non sia Roma città aperta, ma Cartesius, e questo perché il neorealismo non è mai stato specchio di nulla, rappresentazione di niente, se non dello stato eccedente dell’immagine rispetto al reale, quella fuga in avanti che allentava i processi di causa-effetto (industrialmente definiti sceneggiatura), che ri-scriveva il mondo prima ancora che il mondo sapesse de-scriversi. E allora, come il cittadino infastidito dal lavavetri, spingono sul pedale dell’acceleratore e si puliscono la coscienza parlando di crisi di valori. Non a caso il genio assoluto del Rossellini televisivo, oggi completamente dimenticato, volutamente osteggiato e esorcizzato, già parlava comunque di un necessario “rammendo della specie umana”.

Ammettendo pure che abbia un senso oggi parlare di cinema italiano (e russo inglese americano egiziano indiano francese sudafricano), della sua scarsa incidenza, è viceversa proprio il suo perenne stato di nebulosa, se non altro perché mette in dubbio anzitutto l’atto dello scrivere, a essere affascinante. Non a caso la lista di Scalfari si ferma ai forse e ai Moretti, Muccino, Tornatore, Verdone, dimostrando solo quello che già sappiamo leggendo le pagine degli spettacoli del ‘rivoluzionario’ giornale da lui fondato, e cioè che finge e occulta l’inesistenza del 90% del cinema mondiale. Ma, per limitarsi all’Italia, meglio appuntarsi a futura memoria una lista di grandi senza nazione: Cottafavi, Grifi, Citti, Bargellini, Bava, Freda, Amico, Lattuada, Ferreri, Troisi, Argento, De Bernardi, Ciprì e Maresco. E poi Cicero, Laurenti, Ferroni, Questi, Castellari, Fulci, Di Leo, Corbucci, Margheriti. E poi Calogero, Martone, Gaudino, Sandri. E poi Comencini, Monicelli, Risi. E poi Momo, Rondolino, Staino, Santini, Caligari, Eronico. E poi Soavi, De Lillo, Segatori, Rezza, Benigni, Piscicelli, Guadagnino, Garrone, Pozzessere, Capuano, Incerti (mi scuso con gli assenti, ma chiunque è degno di non-esserci, basta una sola sequenza in cento film ancora da fare). Nessuna voglia di fornire un alibi alla parola scelta come traiettoria non sistematica, il cui unico sistema è il frammento, lo spazio nero bucato, perché è l’immagine, non l’immagine ‘italiana’, a svuotarsi e a moltiplicarsi per non darsi a vedere, per non concedersi il vedere.

Forse questa notte custodisce quella veglia che faceva dire a Blanchot, che lo faceva sperare, che non si fosse ancora e mai scrittori, e che quindi le immagini, anche quelle meno ‘degne’ di essere ri-conosciute e parlate, serbassero una zona d’impersonalità da cui fosse possibile trarre un orizzonte, una linea così infuocata e incerta nel suo celibato estremo, da estrarre dal vuoto una scrittura politica, cioè ‘altra’ quanto basta a circolare, raccontare, agire. Il confine è sottile, visto che il non-essere che vorrebbe essere parlato e parlante, ha come prima tentazione quella di rappresentarsi o di dare una rappresentazione. La questione del cinema italiano è sempre questa: non filma, ma pensa che le immagini servano a rappresentare la realtà. Se il cinema fosse un linguaggio, non se ne parlerebbe. Invece si cercano le parole. Il linguaggio è dei giornalisti. E “non si scampa alla volgarità dell’azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione di Stato”.

venerdì 1 giugno 2007

prossimi villaggi nuovo inizio


(ricominciare?)


Un altro giorno parleremo degli Angeli. Anche se i demoni non sono esauriti. Per l’esattezza ce ne sono tanti quante sono le maniere di fallire, di perdere il Paradiso - o la bellissima idea or ora salita alla testa.
Paul Valery

lunedì 19 marzo 2007

Il digitale non esiste - aforismi (88-100)

88. Nel 1927 il Napoléon di Gance è già immagine numerica che si interroga sul movimento in quanto grandezza matematica, misurando la quantità di motricità disponibile e riafferabile nell’ambito della logica diversiva dell’occhio.

89. Fra il 1908 e il 1914, nei film girati per la Biograph, Griffith cataloga in via definitiva ogni singolo diversivo.

90. Nel digitale il numerico è un aspetto qualitativo; nel cinema quantitativo, cioè informatizzato dalla continua ricostituzione del punto di vista.

91. In The Girl and Her Trust Griffith scaglia la macchina da presa a una velocità superiore a quella del primo mezzo di comunicazione digitale, protagonista del film, il telegrafo.

92. Una cinepresa mutante, una macchina sperimentale dal funzionamento automatico, con la stessa non referenzialità dello spazio vuoto di un display, che fa a meno dell’umano, che brucia l’immagine nell’incandescenza continua di linee terrestri e di orizzonti celesti, è stata definita da Michael Snow région centrale.

93. Sokurov con The Sun inventa un’immagine che l’occhio non è più in grado di decidere come è stata ottenuta, arrivando a far coincidere la questione del digitale - l’atto stesso di realizzazione dell’immagine - con quella del potere, indicando la similitudine e quasi l’indiscernibilità dei due vuoti: l’invisibilità del potere e il potere dell’invisibile.

94. Ulmer aveva creduto di poter varcare la linea dicendo: vedere è detour.

95. Il digitale, a sua volta, conferma la collateralità di qualsiasi visione.

96. In Collateral e in Miami Vice Michael Mann sa che il digitale è una deviazione dell’occhio.

97. Anche Une visite au Louvre di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet - non digitale - è tutto un mi sembra di vedere, non si vede più niente, non vedrete più niente, chiudete gli occhi, apriteli, vediamo, quello che abbiamo visto, quello che potremmo vedere.

98. Come i dipinti anche il cinema, con il digitale, non è più libero di perdere i suoi colori.

99. Quando i colori si sbiadiscono, non rimane più che un’immagine.

100. “Guardando non s’impara nulla sui concetti dei colori” (L. Wittgenstein).

martedì 13 marzo 2007

Il digitale non esiste - aforismi (81-87)

81. La questione di ogni immagine è la messa a fuoco, il punto di vista fra luce e ombra, la breve e inavvertita sutura fra visibile e invisibile, il rapporto fra macchina e reale.

82. Per questo la fotografia si è diffusa prima del computer: perchè la pulsione primaria non è di accumulare dati, ma di sopravvivergli.

83. Lucas è un sopravvissuto che individua nell’inapparenza del realizzatore una resistenza all’anonimato del meccanismo.

84. Non è la macchina il problema, ma la possibilità di arrivare a toccare qualcosa del non essere mai del tutto presenti all’immagine.

85. Nessuno è attuale.

86. Che cosa c’è di più virtuale e di più oltre-umano, quindi di più temporale, oltre il tempo, dell’umano?

87. Il digitale è l’in-attualità del (nostro) tempo.

lunedì 12 marzo 2007

I prossimi villaggi - Racconti

Lorenzo Esposito
Avatar

John si alzò presto quel mattino. Il suo risveglio produsse una reazione a catena che buttò giù dal letto decine di membri della confraternita in almeno tre continenti. La rete assecondò subito i primi passi del leader, tramutando il leggero e ininterrotto ronzio del sonno nella consueta colonna sonora claudicante che espandeva come un’eco proveniente dal basso colpi di tosse, passi strascicati, rumore di vettovaglie, tastiere premute, frasi smozzicate. Mentre preparava il caffè, John aveva già inviato il primo ordine di attacco all’avanguardia. Osservando la soluzione acquosa gorgogliare incerta, aspettava un riscontro e ripassava mentalmente i punti sostanziali della strategia di avanzamento. Delle migliaia di confraternite digitali in lotta la sua era una delle più antiche e maggiormente rispettate, cosa che ovviamente accresceva le sue responsabilità. Per questo motivo tutte le sue azioni dovevano essere programmate, visto che le relazioni quotidiane, il contesto stesso in cui ogni singolo membro della confraternita si muoveva, erano il contenuto principale della battaglia. La guerra si svolgeva in quella che una volta veniva chiamata rete, e che oggi era semplicemente la realtà. Ovviamente John, da anni ormai conscio della policronia della propria e altrui immagine, insomma consapevole che l’assoluta visibilità coincideva con l’altrettanto assoluto controllo, anche quella mattina aveva fatto in modo che fosse il suo ologramma a portare avanti il gioco, mentre lui continuò a dormire fino a tardi.

giovedì 8 marzo 2007

(questo non è un) diario

Soprattutto, preferirei avere la lucidità atona del Bartleby melvilliano - che non ho.

mercoledì 7 marzo 2007

(questo non è un) diario

La stanchezza, quasi immediata, del farsi/farmi blog, non è nella penuria di commenti, ma esattamente in ciò che li provoca oppure li azzera, la stessa noiosissima intensità autoreferenziale, quel monologo interiore sui cui si basa la comunicazione oggi, nichilismo infine, letterario o meno.

lunedì 5 marzo 2007

Il digitale non esiste - aforismi (66-80)

66. L’uomo smette di vedersi, benchè l’immagine lo rifletta di continuo. Un giorno quell’uomo decide di darsi un’immagine, di riportare in vita l’immagine di se stesso. Prende tutte le immagini, le ricopre di carne e le libera per il mondo. Queste si dimostrano a tal punto fameliche, che gli esseri umani originari cominciano una guerra contro se stessi allo specchio. E perdono. O al massimo sopravvivono. Lentamente, nonostante tutti gli sforzi per scongiurarla, l’immagine è già passata.

67. Debord lo chiamava spettacolo integrato.

68. L’identità è zombi.

69. Cosa vede uno zombi, se è un’immagine dell’immagine che è stato? Questo aspetto del visibile è il fattore politico del cinema di Romero, oltre che l’esatta ri-capitolazione del dirsi esseri viventi.

70. Se c’è da sempre un ‘luogo-fantasma’ che rende discontinua la restituzione tecnica, c’è grazie alla velocità normale impressa, di cui quella retinica è solo il pre-testo.

71. Se il piano rallenta, e tutt’intorno i corpi cominciano a vacillare pur avanzando, allora la macchina - il cinema? - si arrischia a viaggiare verso il vuoto, a rischiare il vuoto e il suo fallimento.

72. In Romero i vivi vengono sconfitti perchè rifuggono dal vuoto terreo dei risorti riconoscendogli il fascino di una massa vitale, un’immagine in sé libera da tutte le convenzioni del guardare. A nessuno è permesso smarrirsi a tal punto da risorgere.

73. Il digitale lavora direttamente su questa immagine in esilio. Al corpo non viene più richiesta la messa a morte, ma la resurrezione.

74. Forse Adorno si stupiva che da Auschwitz dei corpi fossero riusciti a ritornare.

75. L’esilio è un incrocio di piani. Non un’immagine chiara, ma una discesa fragile, il contorno sfumato di una sovrimpressione. Un ritorno potenziale.

76. Gitai lo chiama di volta in volta promised land, free zone, news from home.

77. L’esilio è l’identità.

78. Registi che non conoscono l’esilio e che pensano di aver risolto il problema con il digitale e il progresso: Mike Figgis, Peter Greenaway, Lars Von Trier.

79. Registi che sanno che il digitale non esiste: George Lucas.

80. Il soggetto delle Star Wars è l’immagine in esilio, cioè l’identità - dell’immagine.

venerdì 2 marzo 2007

Il digitale non esiste - aforismi (52-65)

52. Lo status teorico di immagine simulata è diffuso ben al di là delle funzionalità digitali. Soderbergh o Tarantino, pur facendone limitatissimo uso, sono registi digitali.

53. Soderbergh mima Hollywood, finge una recita il cui imprevisto si annida appunto nei margini previsti e prevedibili della sceneggiatura e dove il full frontal significa l’esatto opposto, ossia tutto ciò che passa di lato, inatteso, non ancora archiviato.

54. Tarantino trasforma un’immensa biblioteca di memoria cinetelevisiva in una grande e tragica interrogazione sull’archeologia dei corpi, sull’occhio gettato fra spezzoni e ritrovamenti, sulla costruzione e insieme sull’istantanea deperibilità del sapere audiovisivo in quanto tale. Sul concetto di virtuale non c’è nient’altro da aggiungere.

55. In ritardo si è compreso come il corpo si fosse già dissolto nella forma industriale post-romantica dell’arte che è il cinema. Il digitale è retroattivo.

56. “Con tutto ciò, tutte le considerazioni che partono dal soggetto restano false nella misura in cui la vita è divenuta apparenza. Poichè, infatti, nella fase presente dello sviluppo storico, la prepotente oggettività di quest’ultimo consiste solo nella dissoluzione del soggetto, senza che un nuovo soggetto sia nato nel frattempo dal suo grembo, l’esperienza individuale poggia necessariamente sul vecchio soggetto, storicamente condannato, che è ancora per sé, ma non è più in sé. Esso si crede ancora certo della propria autonomia; ma la nullità dimostrata ai soggetti nei campi di concentramento investe ormai la forma stessa della soggettività” (T. W. Adorno).

57. L’essenza delle Star stava nel proteggere e nel proteggersi da questa crisi.

58. Godard ha detto: “Ogni film è un documentario sul volto e sul corpo dei suoi attori”. Oggi dobbiamo dire: ogni film è un documentario sul corpo dell’immagine.

59. In Kill Bill Uma Thurman non è un corpo combattente, ma un colore. È il giallo, il cuore solare su cui scintillano i fendenti delle spade, sul quale si impasta il rosso del sangue e il rosa che sale sulle guance durante la battaglia, il bianco latte di una neve improvvisa su cui si attutisce il mondo per l’ultimo duello.

60. Da questi corpi critici emergono due parole: identità e esilio.

61. Io è semplice. Io è una buona scappatoia per cominciare. Si dice io e e le parole vengono da sé e ci si crede protetti, cullati dalla maschera, mimetizzati nel corpo di una parola che, una volta scritta, si finge non appartenga più.

62. Io, ovvero questo liquido amniotico chiamato cinema, che se fosse solo il film, sarebbe un alibi ancora maggiore.

63. La stessa flagranza del cinema può dimorare nella scissione folle dello scrittore che mentre dice io è già altrove e semplicemente non-è. Oppure negli abissali mancamenti fra ogni singola parola, il neologismo stesso che diventa fuori campo, curvando oltre il tempo e diventando puro spazio. È il caso, rispettivamente, di Bret Easton Ellis e di James Ellroy.

64. I grandi cineasti si vedono quando il film tocca l’impersonalità della macchina. Non quando dimostrano di saper vedere, ma quando la cosa filmata è lo sguardo stesso. I grandi cineasti sono im-presentabili.

65. “Il presente è solo dei brutti film” (J.-L. Godard).

mercoledì 28 febbraio 2007

Vedere un altro orizzonte

Philip K. Dick, Vedere un altro orizzonte (The Crack in Space, 1966)
La giovane coppia, capelli neri, pelle nera, probabilmente messicana o portoricana, si fermò, con atteggiamento nervoso, davanti al bancone di Herb Lackmore, e il ragazzo, il marito, disse a bassa voce:
"Signore, vogliamo essere messi a dormire. Vogliamo diventare sospesi".

giovedì 22 febbraio 2007

Serie "Vanitas" (4)

Lorenzo Esposito


Vanitas: in celluloid we trust


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Una domanda che bisogna porsi sempre: vedere, ma vedere cosa per fare cosa? Quel vedere troppo, che significa anche non riuscire più a vedere nulla, che significa anche restarne accecati - non sarà perchè, a forza di guardare, vediamo troppo poco?

Di Werner Herzog è facile pensare: vuole vedere cose mai viste. Ma la cosa è più complessa: è fortemente intenzionato a filmare cose che non esistono (e quindi che non si vedono?). L’immagine come miraggio di se stessa. In Fata Morgana l’inquadratura guarda verso il fondo del deserto, riprendendo due linee, una più vicina alla terra, l’altra che si allontana verso l’orizzonte. In quest’ultima si vedono con chiarezza delle alture, dei laghi, alberi, una macchina che gira in tondo. Herzog corre verso queste ‘visioni’, ma quando raggiunge il punto dove all’incirca gli sembrava si agitassero, si accorge che non c’è nessuna altura, nessun lago, nessun albero, nessuna macchina che gira in tondo. Nulla, solo il deserto. Un miraggio, certo, eppure nel film quelle ‘cose viste’ ci sono, visibili nell’inquadratura, sono state riprese. Ciò che viene filmato è sempre possibile considerarlo visto? Si filmano solo cose che si vedono?

(Nel 1974 Herzog, raggiunto dalla notizia della grave malattia di Lotte Eisner, decide di partire a piedi da Monaco di Baviera a Parigi per “impedirle di morire”. Durante il viaggio - una scalata di quasi un mese - scrive un diario, pubblicato quattro anni più tardi col titolo Sentieri nel ghiaccio - “più bello di tutti i miei film”, chiosa nel commentario dvd di Fata Morgana. Nel diario, fra l’altro, si legge: “Davanti a me non vedo che la strada. A un tratto, verso il crinale di un colle, ho pensato ecco là c’è un uomo a cavallo, ma quando ci sono arrivato vicino era un albero; poi ho visto una pecora e ho avuto il dubbio che fosse un cespuglio, e invece era una pecora moribonda. Moriva in silenzio, era patetica; non avevo mai visto morire una pecora. Andavo molto svelto”).

Il difficile, ma anche l’avventuroso e il tragico, sta nel cammino di ciascuno per ri-conoscere il proprio vedere, per accorciare la distanza che separa il tempo già passato di qualunque immagine e ciò che comunemente ci appare come la nostra vista.

Per questo Herzog ha paura. La paura muove tutti i suoi grandi visionari. La paura di andare ai confini del mondo, il desiderio di saperli inesistenti (oh, se la terra fosse piatta!). Tragico e trasparente come un cuore di vetro. Così anche il film, dopo le sue immagini, si spreca, sempre pronto a fallire, a cadere, a fare bancarotta (Fitzcarraldo). Se il set, o la natura, o la natura del set ‘imbarcano’ pellicola, se il film è solo quel set filmato (che altro poter fare in Aguirre, in Grido di pietra, in Wild Blue Yonder, se non filmare il film mentre si fa set...), ecco il miraggio del cinema.

Le poche immagini che ci è dato vedere nei film, non sono un’aggiunta a tutte quelle dei film precedenti, ma un altro tratto di discesa, una sottrazione di effetti che, forse, potrebbero un giorno condurci indietro all’occhio.

Ecco un segno di vita: il documento reso indocumentabile. Spogliato del suo set e reimmesso nel set fantasma del film. In tutti i commentari dvd Herzog ripete spesso “questa sequenza non l’ho girata io”, “qui non c’ero” (in Aguirre si vede la sua mano sorreggere il baldacchino che, insieme a tutta la troupe, sta davvero affondando nel fango - ed è una scena interna alla finzione film). Echi da un paese oscuro, Il paese del silenzio e dell’oscurità, Rintocchi dal profondo, ma anche Anche i nani hanno cominciato da piccoli, Cuore di vetro, Cobra verde, e ancora La grande estasi dell’intagliatore Steiner, La ballata del piccolo soldato, Il sermone di Huie. Che fragilità in tutta questa energia (volontà di potenza?). In questo febbrile narcisismo del documento, cui viene riconosciuta non la capacità di specchiarsi, ma la passione cinica con la quale, gettandosi a capofitto, manca sempre il suo oggetto supposto. E tutto, è sempre compromesso.

(Compromesso? Compromettersi? Vedi come le parole sfiorano l’invisibile? Questo mancare la realtà del documentario, questo esserne appena un’eco, tanto più falsa, quanto più documentata. Mai visto nessun regista, come Herzog, così intenzionato, in qualche modo misterioso quasi obbligato, a mettere in scena, soprattutto quando documenta).

Il cuore di vetro è lo sforzo dell’umano di superarsi, di trovare quella mutazione in grado di rinnovare la materia, di doppiare un senso per darne uno nuovo. Così, al contrario, questa immagine è troppo umana (per questo tutti questi film di fantascienza, da Fata Morgana a La soufrière a Apocalisse nel deserto a The Wild Blue Yonder?). Davvero, con Nietzsche, in cerca di quell’umanità che le permetta di superarsi e di essere superata.

(E alla fine il vuoto? Il nero? Brandelli di tempo che sottraggono visibilità al cinema, al suo ‘soggetto’. Forse saremo lì dove scompaiono in un colpo d’ala collettivo i rondoni de Il diamante bianco).

Paternità! Paternità! Ecco la questione-Herzog. Come non fu compresa la ‘bella’ inquadratura di Fitzcarraldo e come non fu capita l’immagine ‘sciatta’ di Invincibile. Nessuna delle due erano mai appartenute a alcuno, già non erano più nel momento stesso in cui credevano di mutarsi in film, restando frammenti di un’immagine senza identità. Oggi - Grizzly Man, Il diamante bianco, The Wild Blue Yonder - in attesa di poter filmare la propria morte, si è perfettamente celibi, neppure senza set e senza regia, ma semplicemente altrui.

(Il massimo per Herzog è stato forse girare in veste di attore Incident at Loch Ness di Zack Penn, un falso documentario su un falso film che Herzog finge di dover girare sul lago di Loch Ness, con un produttore bugiardo che a sua volta finge di dare i soldi a Herzog per svelare il mito del grande drago, ma che nel frattempo gira altri due film, uno con una coniglietta di play-boy fatta passare per tecnico del suono e un altro teso a falsare il già falso set con trovate che Herzog giudica eticamente irresponsabili, come fare la ripresa di un falso drago che mentre galleggia all’orizzonte sembra proprio quello vero... Poi però si fa vedere il vero Nessy, che attacca la barca, uccidendo due membri della troupe, uno del documentario di finzione e l’altro del documentario sul film di finzione - non a caso spesso si fa riferimento a Fitzcarraldo, sul cui set morirono degli indios. Mentre la barca affonda - colpo di genio - il regista attore Herzog d’istinto prende la camera abbandonata dall’operatore ucciso - fuori campo la sua voce commenta: “Non so perchè l’ho presa, sicuramente un istinto dovuto a anni di esperienza. Non c’era nient’altro da fare che filmare” - e da solo nell’acqua filma il mostro di Loch Ness, che gli passa accanto, lo tocca, ma lo lascia in vita. Incident at Loch Ness, non un capolavoro, ma esemplarmente teorico, è stato scritto da Herzog stesso con il regista Zach Penn).

Herzog non è un visionario, ma insegue il visionario, sogna di raggiungere il cinema stesso, qualcosa che, se lo si sta vedendo, come minimo vuol dire che è già passato. Ecco perchè fa un cinema così tragico. È come guardare il proprio cadavere: l’autopsia come abbandono al vedere (di nuovo la ricerca del proprio occhio, Herzog e Brakhage). - E il cinema allora resta una lingua sconosciuta. L’enigma di Kaspar Hauser, How Much Wood Would A Woodchuck Chuck..., Fede e denaro, Woyzeck, Dove sognano le formiche verdi, Nessuno vuole giocare con me, La ballata di Stroszek, I medici volanti dell’Africa Orientale, Wodaabe, i pastori del sole, Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo. Freak, ma non perchè un nano pone problemi di ‘contenimento’ dell’inquadratura, quanto invece perchè la deficienza mutagena è quella dell’occhio, che cerca con accanimento l’invisibile senza mai potersi soddisfare. Così è anche Herzog: più è fisico, più denuncia una decomposizione, un difetto mostruoso, una lacerazione, l’enigma e la sua trasparenza.

(La stessa finzione che dire io che scrivo un saggio su una rivista per dei lettori).

Ma poi, a ben vedere, si filmano solo temperature - rocce, foreste, deserti, aria, acqua, fuoco, ghiaccio, sottosuolo. Possibilità di essere visti: zero.

mercoledì 21 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili

Lorenzo Esposito
Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
IV.
Cellule.
Nella campagna francese, sul limitare degli anni cinquanta del ventesimo secolo, si svolsero queste conversazioni:
“Ecco, il posto è questo”.
“Guarda, mamma, c’è anche il ruscello!”.
“Non vi allontanate troppo, bambini!”.
“Li lasci andare, è una così bella giornata...”.
“Oh, signor P., se lei sapesse cosa significa fare tutto da sola... Da quando mio marito...”.
“Prenda questo fiore”.
“E.. E... Grazie... Lei signor P. ci deve raccontare tutto della sua ultima scoperta... Sa, questa storia dell’immortalità... Per una donna sola... Vero Isabelle che ci deve raccontare tutto? Isabelle!”.
“Isabelle, ti stanno chiamando... Vieni, accarezza l’erba, la terra è umida e profumata...”.
“Sarà la signora Guerin, fammi sentire le tue mani, ecco, sorreggimi dietro il collo, è convinta che quello scienziato possa resuscitare il marito, ma tu ci credi a questa storia del rafforzamento delle cellule?”.
“Le foglie cambiano colore, un giorno o l’altro. Ora sono così verdi e limpide, poi luccicheranno affannate sotto la canicola, e poi arriverà il primo vento e i colori affievoliranno, ma c’è ancora una bellezza nell’incanutirsi, nel finire di tutte le cose... Isabelle, io...”.
“Oh, tu Marc, sei sempre così... Ma pensa quante persone si potrebbero aiutare, quante cose non verrebbero dimenticate, e poi tutti, tutti... Ma cosa succede laggiù? Cos’è questa musica... Aspetta, vado a vedere... Altrimenti la signora Guerin mi darà della maleducata, sai com’è fatta... Se avessimo le cellule più forti non ci scorderemmo dell’amore, e forse ci sarebbe sempre questo sole, che dici?”.
“... Ecco, per esempio, queste rughe, non mi guardi così signor P., queste rughe non ci sarebbero se si potesse rimanere giovani, anche se io proprio non riesco a immaginare... Oh, ecco Isabelle... Isabelle! Da questa parte! Ora signor P. ascolteremo la sua storia, e non dovrà nasconderci nulla... Dio, che bella giornata, la sente questa musica? Da che parte arriva? Sbaglio o si sta alzando il vento? Bambini, dove siete? Isabelle!? Ma guardi, è lì che si tiene la testa e non riesce a camminare... In effetti questo vento... Il mio cappello! Signor P...
L’eco non precisabile delle voci dei bambini, l’erba piegata, le persone ferme a metà strada a lottare con l’aria, le gonne roteanti, i cibi spezzati e travolti, il sole accecante in piccoli lampi. L. vide il signor P. alzarsi lentamente in volo, e dopo una prima incerta lievitazione, planare nel vento. Lo guardò bene: sul viso stampava un sorriso.

martedì 20 febbraio 2007

Il digitale non esiste - aforismi (48-51)

48. L’uomo solo strappato a se stesso assapora l’energia dolce dei sentieri che si biforcano, per un attimo non ponendosi limiti, dimenticando confini e linee divisorie. Fuori dall’isola, dove tutto era già uno smarginarsi e un immaginarsi, ora è veramente strappato via, cast away.

49. Ciò che è ridefinibile in maniera illimitata non è archiviabile se non parzialmente. Il digitale crede di poter assolvere a entrambi i compiti.

50. In Zemeckis non c’era bisogno del digitale per concepire l’immagine come stato mutante fra visibilità e apparenza, fra immagine e memoria dell’immagine (back to the future).

51. Al futuro è concesso solo di ritornare.

lunedì 19 febbraio 2007

Non si può vivere senza Rossellini (2)

(da "filmcritica" 571/572, gennaio-febbraio 2007)
Lorenzo Esposito


Roberto Rossellini: oltre il metodo


Non smetteremo mai - accademicissimi convegni a parte - di interrogarci sul fotogramma di Rossellini. A chiederci cosa, in quell’intuizione sull’immagine, preceda l’immagine stessa, a tal punto da renderne vane periodizzazioni e indicazioni di svolta.
Le incandescenze, quella particolare pervicacia rosselliniana nel rimettersi in circolo, di donarsi alla discussione, di sottrarsi al potere stesso dell’immagine, sono ovunque. Fonti inesauribili di scoperta e di accensione del dubbio, si oppongono all’idea stessa di film: quando sono film sono già superate, ridisseminate, pronte a germogliare altrove.
Così ha fatto bene Massimo Causo, nello speciale su Rossellini di quasi un anno fa, a arrischiare un cuore selvaggio nell’ombra di Anima nera (1962). Questa sorta di ultimo atto, insieme a Illibatezza, prima della ramificazione televisiva, scorre come un fiume sotterraneo cui il corso superiore attinge in cerca di acque pulite, e dunque non è affatto un caso ritrovarne in Wild at Heart di Lynch (ma anche in Lost Highway) non solo e addirittura intere sequenze e ‘trattamenti’ dei personaggi (quello di Cage è identico a Gassman), ma lo spirito e l’assoluta irreperibilità di metodo e percorribilità visiva rispetto al cinema dell’epoca. Anima nera non assomiglia a nulla che si facesse in Italia nel 1962 e, a ben vedere, neppure in Francia, per questa sua attitudine a concepirsi al di là degli aspetti sociologici e di scrittura (di Patroni Griffi), e anche saggiamente, e forse con maggiore spericolatezza, molto poco fiancheggiante la coeva combustione cinefila e di ‘riscrittura’ del mondo operata dalla nouvelle vague. Qui contano gli uomini e le cose nel punto in cui si infrangono sul muro ‘artistico’ che li vuole organizzare, conta la zona opaca che non permette all’immagine pose dimostrative, il lavoro dello sguardo a non farsi incanalare dal supposto messaggio, a non essere solo un film (un solo film in quegli anni sembrò - altrettanto ignorato - avere appreso la lezione: Morire gratis di Sandro Franchina).
The World Population (1974), conosciuto anche come A Question of People (unico film che ci è mancato all’appello nel già citato speciale di “Filmcritica” su Rossellini), è un altro caso emblematico. L’anno anzitutto: quel 1974 che include anche Cartesius e Anno uno, i film in cui Rossellini è così sintetico da verificare la sintesi stessa, sfrangiando la più che approfondita gestione del dato storico, in una conversione filosofica del singolo primo piano, di ciò che nessuna storia e nessuna metafisica è in grado di ricostruire o di trascendere, l’addensarsi semplice e cristallino del tempo su un volto, e la difficoltà a coglierne a pieno la luce del passaggio, di riasserire la vita nel suo inesorabile ritorno all’origine (di cui fa parte la sicurezza con cui per esempio Tag Gallagher afferma che di Rossellini in The World Population non c’è nulla, che il film è tutto del montatore Beppe Cino, non accorgendosi, in questo modo, di rientrare perfettamente nel disegno e nel metodo rosselliniano...).
Pianeti come cellule, visioni satellitari, e poi la discesa nella cellula-mondo: il popolo indigeno, le ruspe (per minuti alberi che cadono: siamo già a La foresta di smeraldo di Boorman), le metropoli, i villaggi, i deserti. Riprese aeree, zoom, primi primissimi piani, occhi e pelli bruciate, carrellate, scienza e ragione che rammendano l’uomo. È esattamente questo - l’origine - l’obiettivo (tecnica compresa): la perfetta non cinematograficità all’interno di una bellezza al contrario tutta filmica. Sublime il modo in cui in The World Population è impossibile distinguere il repertorio dal filmato (se lo vedesse Herzog, anche lui dovrebbe ricominciare daccapo), come se le immagini e la loro tematicità (in questo caso il problema dell’incremento demografico), appartenessero già al mondo e al mondo venissero riconsegnate.
Film capitale (e imprescindibile per ragionare su Rossellini), la cui intensità anche visiva è tutta con drammatica lucidità in equilibrio sul bilico di ciò che nell’immagine tende a farsi film, e nella ricerca di quello che in questo passaggio viene perduto, del tempo rimasto indietro, della vita ancora da vivere.

venerdì 16 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili

Lorenzo Esposito
Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
III.
Autofagia.
Nei primi giorni del XXI secolo, L. sbarcò sulla costa africana. C’era una grande confusione. Un uomo di nome Patrick dirigeva le operazioni di smistamento. Non si trattava più di emigrazione controllata, adesso l’accordo veniva concluso all’origine. Uno o più incaricati dislocati lungo i settori di divisione e un programma di ripartizione concordato fra gli Stati. Disponibilità, risorse, occupazione e un lungo interrogatorio. Una specie di laboratorio intra-etnico. Per tutti, poche speranze di partire. Alla fine dell’esame poteva succedere che l’incerto sudanese venisse riassegnato al Mali e lo spigoloso nigeriano al regno verde del Camerun, e così via. L’Africa si rimescolava. L’Africa mangiava autofaga pellicine intorno alle unghie.
Sul ponte grigio livido che collegava per chilometri le sponde aeree del deserto, qualcuno senza faccia si sporgeva. Guardava Patrick e stava per domandargli qualcosa, ma esausto già si voltava. Nel deserto si possono vedere cose che non esistono. Patrick percorreva per chilometri la linea di confine, e ogni volta era costretto a verificare che la linea si era spostata, che non esistevano confini. Ciò provocava lunghissime discussioni fra i membri del comitato al seguito dei lavori per conto dei vari Stati. Poichè non si trovava soluzione, alla fine di ogni seduta la mappa dell’Africa veniva modificata. Patrick allora uscì dalla tenda per guardare il tramonto, e lì dove la sabbia sembrava declinare verso l’orizzonte, vide chiaramente delle alture, dei laghi, degli alberi, un’automobile che girava in tondo come a rincorrere il sole. Salì sulla sua jeep e si diresse velocemente verso il centro della visione, ma superò altri mille confini senza che il paesaggio mutasse: non c’erano alture, non c’erano laghi, non c’erano alberi, non c’era alcun motorizzato predatore di sole.
L. si installò nell'attività febbrile. La sabbia gli scaldava i piedi, e il calore piacevolmente gli saliva fino alla base della nuca. Si sta bene, qui. Una mattina Patrick si alzò prima degli altri. Fece un giro d’ispezione, assicurandosi che le file di viaggiatori fossero sotto controllo. A quell’ora erano già svegli, e silenziosamente si preparavano a tentare di rompere gli argini. Lui aspettava il giorno in cui avrebbero capito come sfruttare a loro favore l’inconsistenza delle linee divisorie, smettendola di spingersi in avanti in linea retta. I percorsi erano specificamente pensati per trasformare il divieto a emigrare in un programma di riassegnazione globale, ma per questi abitanti del deserto la sabbia non aveva peso, stavano tutti di profilo a immaginarsi la costa dall’altra parte, con gli occhi abbandonati laggiù.
Mentre il sole sorgeva e le mosche e gli uccelli si alzavano in volo e i serpenti uscivano dalle tane, Patrick sentì queste domande: si sta parlando di confini o dell’uomo? Cosa si sa dei nostri confini di esseri umani? Cosa significa confine? In attesa di una risposta, il giovane nigeriano prese la sua telecamerina digitale e la portò sulla duna più grande, e poi la portò anche nella giungla profonda. Mentre camminava nel lungo carrello, inciampò nel fango, cadde, e si poteva vedere la spia rossa ancora accesa. Il ragazzo fece così col braccio per alzarsi, ma aveva una gamba rotta. Moscerini sull’obiettivo, che ancora registrava. Cominciò a piovere. Gocce sul vetro e tempesta di sabbia. Il fango si addensò in un ruscello d’acqua salmastra e il giovane nigeriano venne trascinato via. La telecamera scivolò nella stessa direzione e lo riprese mentre lui la guardava spinto verso il basso, e continuò a riprenderlo anche quando la sua corsa finì, sbattendo il capo sul tronco nodoso di un grande albero, perdendo i sensi e forse anche la vita. La telecamera scivolò ancora, riuscendo a scorgere i piedi di una bambina che correva, e più avanti, grazie a uno scossone, l’uomo che le stava accanto tenendola per mano. Ruotando fece in tempo a rubare un pezzo di cielo e un brano di città là sotto. Patrick notò che tutti i viaggiatori in attesa si erano cavati gli occhi.
L., che amava raccogliere e conservare documenti, prima di ripartire intercettò una lettera che Patrick scrisse prima di addormentarsi.

Avamposto 4b, raggiera maghrebina, gennaio 2000
"Ciao Sarah,
oggi il sole ha cominciato a manifestare i primi segni di insofferenza. La luce ha smesso di essere uniforme e i raggi scendono intermittenti. In molti hanno riportato strane bruciature, che sembrano indicare delle forme astrali, oppure vogliono solo dirci qualcosa del nostro passato. Sento molto la tua mancanza, soprattutto la notte, quando avrei bisogno del tuo calore. Ti ricordi quel viaggio sulle stelle dove non c’era più un unico sole, e noi correvamo a metterci sulle due colline più distanti per vedere quale faceva più luce? Spesso mi fermavo e girandomi ti guardavo correre, perchè mi piaceva come diventavi una macchia fuori fuoco e sembravi fatta d’aria. La notte quei due soli era come se non ci fossero mai stati, e solo il tuo corpo riusciva a farmi avere un po’ di calore. Qui invece qualcosa sta andando storto, o forse è andato storto tanto tempo fa, quando è stato creato prima il deserto e poi il mondo. Amore mio, quanta amarezza! Sono stato tutto il giorno a guardare la carcassa di un vecchio aereo che è comparso dietro una duna. Era così immobile e senza vita, non come sono le cose lasciate lì per caso, che invece hanno quella loro anima misteriosa, ma come la morte, fredda e gelida, di uno sconosciuto. Non ho avuto il coraggio di toccarlo, e ho dovuto anche litigare con il Comitato, perchè non mi trovavano, e una decina di viaggiatori aveva provato a superare gli argini suicidandosi, contemporaneamente sicuri di avere invocato il germe della trasmigrazione. Cosa c’è di là, amore? Cos’è questo desiderio selvaggio di passare dall’altra parte? Passare. Non è comune a tutti gli umani? Ho pensato: di umano è rimasto solo essere superati. Passare è umano. Ma ti sto annoiando. Tu come stai? Metti sempre il rossetto rosso che mi piace tanto? Come sei vestita? Mi manchi, mi manca il tuo sapore, mi manca la tua voce...”.

giovedì 15 febbraio 2007

(questo non è un) diario - contro la comunicazione

giovedì 15 febbraio 2007

Ecco il sistema.
Le scuole di cinema sono inutili edifici pensati per non far pensare.
Esse sono basate sulla dittatura della sceneggiatura, un oggetto insulso che rende imbecilli.
Non a caso gli Stati - segnatamente le cosiddette democrazie occidentali - fondano il loro sistema di finanziamento sulla sceneggiatura: non importa l'immagine, ma il controllo sull'immagine. Alle persone bisogna impedire di pensare, cioè di vedere.
Produttori, distributori, giornalisti, festival sono complici del sistema, sono funzionari di polizia.
La visibilità, il successo addirittura, sono solo comunicazione, il nucleo e il succo del sistema, cioè quanto di più drogato, prezzolato e ossessivamente ipocrita si possa concepire.
Fate come vi pare, ma noi, con Rossellini, sappiamo che la cinepresa è una tigre di carta!
loresp

Non si può vivere senza Rossellini (1)

da "Filmcritica" 565 maggio 2006
Lorenzo Esposito
Rosselini, ovvero il cinema ceduto alla realtà

La questione dello scrivere su Rossellini è che per prima cosa bisognerebbe interrogarsi sullo scrivere. Non basta trovare la giusta sequenza di parole, non basta mai. C’è una distanza dell’immagine, un suo essere già talmente lì e qui fra le cose, che nessuna parola sembra in grado di dire. Ci si può allontanare dal set, si può fare a meno della scena scritta, si può diffidare della tecnica e del suo potere, cercando non la parola, non l’immagine, ma la sequenza - breve o lunghissima - del suo avvicinamento alle cose, l’accostarsi duro e gentile, secco e vibrante con cui, sempre, se ne allontana. E solo così forse trovare la sequenza di parole che scorre indipendentemente dalla parola, la sequenza impersonale del film. Una tela sulla quale i colori vengono da sé, si riavvolgono da soli raccontando la storia del lavoro fatto per raggiungere lo stato e la dinamica dello stato, ciò che ri-guarda l’esistere.

Per esempio la parola tecnica. Lo zoom in Rossellini è una tecnica? O è una linea, una curva, una voluta, un galleggiamento, un manto, un mosaico, un battito, uno stacco, un tocco, un tratto, un fiato, un respiro, un ricordo, una distrazione, un moto di curiosità, un pensiero? E i set che ne sono attraversati? Pieni dell’utopia del mondo, universo e parziale, sembrano diventare fantasmi e proprio in quel momento sono reali. Non più immagini, ma l’immagine che da qua è riuscita a giungere (a esistere?) al di qua, non più immagine della, ma realtà.

L’essere, l’esistere, con Rossellini, dopo Rossellini, bisogna ora ritrovarli, trovare altre parole per dirli, parole sconosciute in una lingua sconosciuta. Cinema mai più ripetuto, film che non ha più bisogno del cinema e del filmare, per darsi ovunque, origine d’ogni sguardo, intenzione, rivoluzione, aspettativa, stimolo, nouvelle vague, underground, isolata telecamerina, singola rivendicazione di metodo, qualunque automatico intento epigono. E contemporaneamente questa realtà del cinema non si vede, ovunque coincide con da nessuna parte, compreso l’equivoco e la cancellazione. Ogni passo in Rossellini, verso Rossellini, è una nuova domanda.

Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata. E che pure la filma, dubitando però della consistenza stessa delle cose. Sospettando anzitutto del cinema, sospettando di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose (lo è così spesso il cinema, tanto che nelle sue histoire(s) Godard lo definisce né un’arte né una tecnica, e Rossellini nella sua Storia definisce se stesso non un artista ma un artigiano). E al contrario affrontando, fino a depotenziarlo, tutto ciò che nel cinema le anticipa e le precede (cedendovi alfine, cedendo loro qualcos’altro).

Solo questa è la verità (del cinema). Rossellini che si interrogava: “La morte, che significa ancora? La vita, che significa?”, raggiungeva la quotidianità media del vedere, si innestava nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio, e non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito. Il resto, le accuse di scarsa storicità e scientificità e di sciatteria dell’immagine, sono parte sostanziale di quest’ombra, di quest’arrancare dell’occhio nella lotta per la sua sopravvivenza. Non uno spazio, ma un tempo, cioè un materiale da lavorare, da arroventare, da sospendere. Come il ferro, come le nuvole, come un girar di testa, come la storia.

mercoledì 14 febbraio 2007

(questo non è un) diario


mercoledì 14 febbraio 2007
16mm, racconto della serie Villaggi irraggiungibili è stato pubblicato su "Vertigine", quotidiano letterario di Rossano Astremo: http://vertigine.wordpress.com/
loresp

Il digitale non esiste - aforismi (41-47)

41. Il digitale smaschera ciò che al cinema non è mai servito: i set e le sceneggiature. Così oggi qualsiasi cinema e qualsiasi film svaniscono non appena si convincono di poter tracciare confini e, peggio, di potersi comunicare.

42. Si vuole davvare essere comunicabili? Essere mediabili? Essere media? Essere media più abili? Abilitati a essere nella media?

43. L’uscir fuori dalla forma, da tutte le formalità della visione, proprio a partire da una forma mai vista prima, è il sogno già realizzato e mai abbastanza compreso di Walt Disney.

44. La natura imprecisa e zoppicante della simulazione digitale, fa dell’immagine una sorta di lapsus divaricato fra il desiderio di accorciare il margine con l’immagine stessa e la consapevolezza di non poterne toccare il fantasma se non mimandolo appena. Il tutto digitale di Polar Express di Zemeckis si assume la responsabilità di questa missione impossibile.

45. Il non-umano o simil-umano dell’immagine digitale, riprende il processo d’incredulità e fragilità e sacrificio connesso all’idea stessa del credere.

46. “E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Matteo 17, 2).

47. Quali sono i margini dell’immagine? La loro inesattezza e progressiva alterabilità, deve far parlare dell’immagine o di un’immagine? Quali sono i margini dell’immagine di Dio?

martedì 13 febbraio 2007

(questo non è un) diario

martedì 13 febbraio 2007
Tutti i blog hanno foto e ricercati abbellimenti. Varrà la pena - e quanto a lungo? - restar solo scritto?
loresp

Villaggi irraggiungibili

Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
II.
Demolizioni
Alzando gli occhi verso il cielo l’aria azzurra è tagliata da un cavo elettrico che segue la linea dei monti, come le case inerpicate sul colle attaccato alla strada.
In un giornale del 1951, L. recuperò la notizia di un terremoto che aveva costretto le autorità a evacuare il sud Italia. Poichè gli abitanti non si muovevano e avevano piantato i fucili nel fango, il governo decise di demolire tutte le case. L’idea era quella di allettare le miserabili zone circostanti con due mesi di lavoro ben pagato: i cittadini non avrebbero mai sparato sugli operai.
Si videro le schiene sudate luccicare al sole e mischiarsi alle macerie e alla polvere, in un’unica colata d’argento. L. giunse alla parte che lo interessava. Per sua natura una demolizione complessiva partiva dai tetti. Così gli operai avevano costruito una rete di cavi che univano nel cielo le cime delle case. Da sotto si potevano ammirare i battitori, che come acrobati passavano da un tetto all’altro tenendosi in equilibrio sulle nuvole. E quando il sole accecava la vista, erano i colpi mirati sulle pietre a indicare il cammino. Piegando il giornale, L. si accovacciò in attesa. Passando davanti al sole, gli acrobati procuravano piccole eclissi.

Più di cinquant’anni dopo, all’incirca nell’estate del 2005, L. giunse in Cina, nella valle delle tre gole, e riconobbe lo stesso reticolo celeste. Il paese costruito sulle pareti scoscese della grande conca stava lentamente sparendo sott’acqua. La diga non teneva, e vari anni di inondazioni stavano progressivamente annegando la cittadinanza. Il governo ci aveva pensato un po’ su, giungendo alla drastica conclusione: demolire.
A questa, si aggiunse la storia di un uomo venuto per cercare la sua donna, scomparsa da mesi. Durante le ricerche l’uomo divenne demolitore capo - lui così piccolo e brevilineo, ma servivano ali leggere per volare. Gli acrobati solcavano il cielo e le schiene rosse luccicavano. C’era un pittore che faceva ritratti agli operai. Li metteva in piedi sulla piattaforma e aspettava che trovassero una posa al sole. Erano tutti a torso nudo con delle mutande blu, sporche di calce e punteggiate di urina. Sui quadri i cavi non si vedevano.
Il piccolo demolitore disse ai suoi compagni: “Quando la vedrò, dopo averle parlato, partirò, e sceglierò uno di voi per sostituirmi”, e lo diceva mentre spaccava pietre. Chiedendo un po’ in giro, aveva scoperto che la moglie si era imbarcata come cameriera per pagare un debito. Le barche salpavano una volta al mese e una volta al mese tornavano per ancorarsi alla diga, ma questo prima, ora, durante la demolizione, ne venivano sempre meno, perchè anche la gente era sempre meno, e nessuno comprava il pesce.
Il piccolo demolitore decise di aspettare fin quando l’ultima casa fosse rimasta in piedi - anche una sola famiglia poteva significare ancora una barca... Al tramonto, quando la valle sembrava chiudersi a riccio nel contrasto di luce fra le foreste e le acque, saliva sulla terrazza più alta, e lì si prestava come modello al pittore. Si metteva in bilico, accovacciato, in modo che le ginocchia toccassero il mento, oppure camminava di spalle fumando a torso nudo, e sempre in modo da poter guardare all’orizzonte e, più sotto, alla zona d’attracco. Se vedeva arrivare una barca, faceva segno al pittore che avrebbero continuato domani.
Fermo in piedi sulla piramide di ciottoli, L. sosteneva la scena. Pensò che non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che l’amore sognava di perdersi, o forse solo di cadere. In tutti i suoi viaggi, L. aveva imparato che non si cade mai, perchè non si può cadere da un vuoto verso un altro vuoto. Non si cade, perchè il mondo è cavo.

Il digitale non esiste - aforismi (35-40)

35. Parole dell’era digitale: trasmissione, fruizione, archiviazione, manipolazione, discrezione, assemblaggio, omogeneità, interazione, standardizzazione, automazione, rappresentazione, simulazione, virtuale, globale.

36. Parole dell’era analogica: realtà.

37. Quando il digitale tenta di ricreare (di somigliare) il corpo umano, finisce sempre per fornirne una o la differenza. Benchè tenda al doppio (alla rappresentazione) sarà al massimo, ma il punto è che vuole esserlo, somigliante.

38. “La somiglianza fedele consiste proprio nel mostrare un’altra cosa rispetto alla corrispondenza dei tratti” (J-L. Nancy).

39. Usi e consumi dell’era digitale: siti web, videogame, cd-rom, dvd, telefonia cellulare, i-pod, realtà virtuale, telerobotica, computer graphic.

40. Usi e consumi dell’era analogica: realtà.

à rebours

ricevo e pubblico

10 febbraio 2007

"Caro Lo, il prossimo villaggio, o il villaggio vicino , dipende dalle traduzioni, è uno degli scritti più brevi e lancinanti di kafka; tracce di quel genere, meno pure, si ritrovano anche in martin buber nei sui racconti chassidici. sicuro di voler porre sotto la stella chassidica mooolto spaesante e perciò iscrivere all'erranza eterna il tuo blog? comunque ti leggo e ammiro la tua audacia infernal baci grandi da daniela".

lunedì 12 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili


Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta.


I.

16mm

Si era nel 1971. Da circa un anno, da estate a estate, L. sostava nella campagna italiana. Era un’estate cupa, quella, il sole faticava a filtrare i colori grigi e marroni dell'autunno innaturale che ingannava il tempo. Ma l’erba era verde e i fiori gialli, e la vita della piccola famiglia procedeva spedita. La piccola famiglia, papà mamma e figlia, guardava gli alberi sbattuti dal vento, e quando guardava meglio, vedeva l’erba nascere dall’erba, come un mondo sovrimpresso. Facevano lunghe passeggiate insieme, e il padre parlava molto, a se stesso e a loro. Sorrideva, e aveva degli occhi dolci, ma era anche serio, sorrideva con serietà, perchè parlava del futuro. Diceva: “Mamma, figlia, dobbiamo essere forti, ho scoperto che oggi e domani, oggi e domani fra altri cinquant’anni, saranno uguali. L’industria continuerà a produrre capolavori e i rivoluzionari abbandoneranno le cineprese. Guardare sul computer una donna in penombra che si spoglia all’altro capo della terra, con quei lampi e quelle smagliature di luce che non dipendono da nessuna videocamera montata sullo schermo, da nessun nastro, da nessuna assunzione digitale, ma solo dal movimento distratto della testa, dall’occhio che si apre e che si chiude per cercare di restare aperto, dalla cosa che è prima di ogni immagine e che non si sa cosa è - guardare l’ombra di questa donna sarà celebrare il futuro di mille poeti sotterranei che immergono le mani nella pellicola: un trasferimento di modulazione, malinconico cristallo di un apprendistato che secca gli occhi, fissi allo specchio di un film le cui immagini sono da dentro le pupille. Dovete essere forti, la morte non è poi così lontana, anche se il ricordo del futuro ha chiuso tutti i laboratori e la pellicola è diventata un bene raro, come l’acqua, e forse ne seguiranno nuove guerre. Oh, tutte le televisioni mostreranno adolescenti che crescono sui balconi, che oziano sul marciapiede sotto casa, che parlano dei sogni con le amiche, ma non ci sarà più alcun mistero sulla pelle rosa che sporge dalle gonne troppo corte, nessuna incertezza sull’autore: guardano tutte in macchina e sorridono. Le frontiere verranno aperte, e i metal detector non risuoneranno più di pellicole pericolose, vi ricordate, come quella volta in Turchia che hanno lasciato bruciare alla luce il mio film, la mia fiaba girata in esilio, ma si accenderanno per altri liquidi, e verranno sequestrati shampi, deodoranti, colluttori. La polizia sarà sempre fra noi, ma non fuggiremo più, ci avranno insegnato la delazione di noi stessi, ognuno sarà un poliziotto con il suo cane da guardia al guinzaglio. Tutto sarà chiaro, ordinato. Non ci saranno più tanti alberi isolati sbattuti dal vento, e non sempre la luna vista dalla finestra procurerà fantasmi. La sovrimpressione sarà vietata. Vietato confondere l’erba con l’erba. Vietato il silenzio. Vietato il tempo dilatato di un flash. Vietata la metamorfosi: guai a trasformarsi in cinepresa, guai a trasformarsi in donna, guai a trasformarsi in acqua, guai a trasformarsi in bambina. Tutti saranno tecnici, ma in pochi faranno film. Tutto sarà tra parentesi, prima ancora di subordinare il dono di una parentesi. Oh, le città ci guarderanno dall’alto, ci inquadreranno di giorno e di notte, dai semafori, agli angoli delle strade, le telecamere punteranno il sordo ronzio sul mondo. E dovete essere forti, perchè non ci sarà nessun varco, nessun modo di scoperchiare la terra e estrarne girati d’energia. Invece fino all’ultima goccia si estrarranno litri di oro nero e ci si sguazzerà dentro con gli eserciti. Saremo così morti, che non ci sarà più coscienza della morte, qualcosa che attiene al mondo e al modo in cui si svolge una vita. Gli spettacoli saranno così poco vitali, che non attesteranno alcuna morte, cioè nessuna idea, nessuno slancio, nessuna emozione, nessuna scoperta. I corpi non avranno pause, non si spegneranno nella fiamma di una candela, e non vibreranno nelle tempeste magnetiche. Tutti adoreranno idoli, ma l’amore sarà cosa rara. Sapete quando vi ho spiegato: abbiamo visto veramente, e di conseguenza anche la pellicola ha visto? Ecco, sarà l’esatto contrario”. E mentre diceva così, guardava l’erba, e guardava la mamma e la figlia negli occhi, e vedeva che non tutte le sue parole erano chiare, ma che c’era la fiducia necessaria, e che sarebbero state forti.

Poi il padre prendeva la sua cinepresa 16mm e la gettava nella valle. Si procurava metri e metri di pellicola negli sporadici mercatini nomadi che sorgono nelle giunture del pendio, nelle grotte che conducono alla città, labirinto di tunnel che qualcuno ha costruito tanto tempo fa. Ne comprava il più possibile, perchè i tunnel stavano lentamente sparendo, nessuno sa spiegarselo, e la città potrebbe diventare irraggiungibile. Si svegliava presto e con le prime luci correva a filmare il mondo. Filmava l’acqua, filmava l’albero, filmava l’ape che muore. Ma soprattutto filmava la figlia, che anche piccolissima sa cos’è una cinepresa, e appena nata, con grande stupore di tutti, con la mano fa ciao all’obiettivo. Oggi era l’attrice principale, seguiva il padre e gli faceva le scene. Una volta prese un’ape e la fece morire per la cinepresa.. La moglie anche è un’attrice, e il padre la filmava ovunque, la filmava nuda, oppure trattava lo sviluppo della pellicola per farla diventare una donna-cosmo, oppure un vampiro, o un'onda blu, o mille fantasmi che scivolano nella notte dalla finestra.

Un giorno la famiglia si accorse che la campagna cresceva a vista d’occhio. Più alta l’erba, più lontana la linea dell’orizzonte. Qualcuno raccontava che i tunnel si erano chiusi, ma la gente nei dintorni non ci faceva caso, qui c’è tutto quello che serve. Il padre stava tutto il tempo nel suo laboratorio, e a forza di fare bagni di pellicola, vide questo strano effetto, come se la terra si allungasse. Pensò a un abituale sfarfallio, o a un difetto di ripresa. Ma quando proiettò il film, la figlia disse: “La terra cresce”. Allora lui corse fuori, e puntò il 16mm verso il suo amato albero. Poi guardò lo spazio, e accanto all’albero ne stava crescendo uno nuovo. Restò sconcertato, e affascinato. Non era vero, la terra non stava crescendo, era la pellicola che stava rubando pezzi di mondo, e durante la sottrazione la campagna, per difendersi, si mangiava la città.