mercoledì 28 febbraio 2007

Vedere un altro orizzonte

Philip K. Dick, Vedere un altro orizzonte (The Crack in Space, 1966)
La giovane coppia, capelli neri, pelle nera, probabilmente messicana o portoricana, si fermò, con atteggiamento nervoso, davanti al bancone di Herb Lackmore, e il ragazzo, il marito, disse a bassa voce:
"Signore, vogliamo essere messi a dormire. Vogliamo diventare sospesi".

giovedì 22 febbraio 2007

Serie "Vanitas" (4)

Lorenzo Esposito


Vanitas: in celluloid we trust


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Una domanda che bisogna porsi sempre: vedere, ma vedere cosa per fare cosa? Quel vedere troppo, che significa anche non riuscire più a vedere nulla, che significa anche restarne accecati - non sarà perchè, a forza di guardare, vediamo troppo poco?

Di Werner Herzog è facile pensare: vuole vedere cose mai viste. Ma la cosa è più complessa: è fortemente intenzionato a filmare cose che non esistono (e quindi che non si vedono?). L’immagine come miraggio di se stessa. In Fata Morgana l’inquadratura guarda verso il fondo del deserto, riprendendo due linee, una più vicina alla terra, l’altra che si allontana verso l’orizzonte. In quest’ultima si vedono con chiarezza delle alture, dei laghi, alberi, una macchina che gira in tondo. Herzog corre verso queste ‘visioni’, ma quando raggiunge il punto dove all’incirca gli sembrava si agitassero, si accorge che non c’è nessuna altura, nessun lago, nessun albero, nessuna macchina che gira in tondo. Nulla, solo il deserto. Un miraggio, certo, eppure nel film quelle ‘cose viste’ ci sono, visibili nell’inquadratura, sono state riprese. Ciò che viene filmato è sempre possibile considerarlo visto? Si filmano solo cose che si vedono?

(Nel 1974 Herzog, raggiunto dalla notizia della grave malattia di Lotte Eisner, decide di partire a piedi da Monaco di Baviera a Parigi per “impedirle di morire”. Durante il viaggio - una scalata di quasi un mese - scrive un diario, pubblicato quattro anni più tardi col titolo Sentieri nel ghiaccio - “più bello di tutti i miei film”, chiosa nel commentario dvd di Fata Morgana. Nel diario, fra l’altro, si legge: “Davanti a me non vedo che la strada. A un tratto, verso il crinale di un colle, ho pensato ecco là c’è un uomo a cavallo, ma quando ci sono arrivato vicino era un albero; poi ho visto una pecora e ho avuto il dubbio che fosse un cespuglio, e invece era una pecora moribonda. Moriva in silenzio, era patetica; non avevo mai visto morire una pecora. Andavo molto svelto”).

Il difficile, ma anche l’avventuroso e il tragico, sta nel cammino di ciascuno per ri-conoscere il proprio vedere, per accorciare la distanza che separa il tempo già passato di qualunque immagine e ciò che comunemente ci appare come la nostra vista.

Per questo Herzog ha paura. La paura muove tutti i suoi grandi visionari. La paura di andare ai confini del mondo, il desiderio di saperli inesistenti (oh, se la terra fosse piatta!). Tragico e trasparente come un cuore di vetro. Così anche il film, dopo le sue immagini, si spreca, sempre pronto a fallire, a cadere, a fare bancarotta (Fitzcarraldo). Se il set, o la natura, o la natura del set ‘imbarcano’ pellicola, se il film è solo quel set filmato (che altro poter fare in Aguirre, in Grido di pietra, in Wild Blue Yonder, se non filmare il film mentre si fa set...), ecco il miraggio del cinema.

Le poche immagini che ci è dato vedere nei film, non sono un’aggiunta a tutte quelle dei film precedenti, ma un altro tratto di discesa, una sottrazione di effetti che, forse, potrebbero un giorno condurci indietro all’occhio.

Ecco un segno di vita: il documento reso indocumentabile. Spogliato del suo set e reimmesso nel set fantasma del film. In tutti i commentari dvd Herzog ripete spesso “questa sequenza non l’ho girata io”, “qui non c’ero” (in Aguirre si vede la sua mano sorreggere il baldacchino che, insieme a tutta la troupe, sta davvero affondando nel fango - ed è una scena interna alla finzione film). Echi da un paese oscuro, Il paese del silenzio e dell’oscurità, Rintocchi dal profondo, ma anche Anche i nani hanno cominciato da piccoli, Cuore di vetro, Cobra verde, e ancora La grande estasi dell’intagliatore Steiner, La ballata del piccolo soldato, Il sermone di Huie. Che fragilità in tutta questa energia (volontà di potenza?). In questo febbrile narcisismo del documento, cui viene riconosciuta non la capacità di specchiarsi, ma la passione cinica con la quale, gettandosi a capofitto, manca sempre il suo oggetto supposto. E tutto, è sempre compromesso.

(Compromesso? Compromettersi? Vedi come le parole sfiorano l’invisibile? Questo mancare la realtà del documentario, questo esserne appena un’eco, tanto più falsa, quanto più documentata. Mai visto nessun regista, come Herzog, così intenzionato, in qualche modo misterioso quasi obbligato, a mettere in scena, soprattutto quando documenta).

Il cuore di vetro è lo sforzo dell’umano di superarsi, di trovare quella mutazione in grado di rinnovare la materia, di doppiare un senso per darne uno nuovo. Così, al contrario, questa immagine è troppo umana (per questo tutti questi film di fantascienza, da Fata Morgana a La soufrière a Apocalisse nel deserto a The Wild Blue Yonder?). Davvero, con Nietzsche, in cerca di quell’umanità che le permetta di superarsi e di essere superata.

(E alla fine il vuoto? Il nero? Brandelli di tempo che sottraggono visibilità al cinema, al suo ‘soggetto’. Forse saremo lì dove scompaiono in un colpo d’ala collettivo i rondoni de Il diamante bianco).

Paternità! Paternità! Ecco la questione-Herzog. Come non fu compresa la ‘bella’ inquadratura di Fitzcarraldo e come non fu capita l’immagine ‘sciatta’ di Invincibile. Nessuna delle due erano mai appartenute a alcuno, già non erano più nel momento stesso in cui credevano di mutarsi in film, restando frammenti di un’immagine senza identità. Oggi - Grizzly Man, Il diamante bianco, The Wild Blue Yonder - in attesa di poter filmare la propria morte, si è perfettamente celibi, neppure senza set e senza regia, ma semplicemente altrui.

(Il massimo per Herzog è stato forse girare in veste di attore Incident at Loch Ness di Zack Penn, un falso documentario su un falso film che Herzog finge di dover girare sul lago di Loch Ness, con un produttore bugiardo che a sua volta finge di dare i soldi a Herzog per svelare il mito del grande drago, ma che nel frattempo gira altri due film, uno con una coniglietta di play-boy fatta passare per tecnico del suono e un altro teso a falsare il già falso set con trovate che Herzog giudica eticamente irresponsabili, come fare la ripresa di un falso drago che mentre galleggia all’orizzonte sembra proprio quello vero... Poi però si fa vedere il vero Nessy, che attacca la barca, uccidendo due membri della troupe, uno del documentario di finzione e l’altro del documentario sul film di finzione - non a caso spesso si fa riferimento a Fitzcarraldo, sul cui set morirono degli indios. Mentre la barca affonda - colpo di genio - il regista attore Herzog d’istinto prende la camera abbandonata dall’operatore ucciso - fuori campo la sua voce commenta: “Non so perchè l’ho presa, sicuramente un istinto dovuto a anni di esperienza. Non c’era nient’altro da fare che filmare” - e da solo nell’acqua filma il mostro di Loch Ness, che gli passa accanto, lo tocca, ma lo lascia in vita. Incident at Loch Ness, non un capolavoro, ma esemplarmente teorico, è stato scritto da Herzog stesso con il regista Zach Penn).

Herzog non è un visionario, ma insegue il visionario, sogna di raggiungere il cinema stesso, qualcosa che, se lo si sta vedendo, come minimo vuol dire che è già passato. Ecco perchè fa un cinema così tragico. È come guardare il proprio cadavere: l’autopsia come abbandono al vedere (di nuovo la ricerca del proprio occhio, Herzog e Brakhage). - E il cinema allora resta una lingua sconosciuta. L’enigma di Kaspar Hauser, How Much Wood Would A Woodchuck Chuck..., Fede e denaro, Woyzeck, Dove sognano le formiche verdi, Nessuno vuole giocare con me, La ballata di Stroszek, I medici volanti dell’Africa Orientale, Wodaabe, i pastori del sole, Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo. Freak, ma non perchè un nano pone problemi di ‘contenimento’ dell’inquadratura, quanto invece perchè la deficienza mutagena è quella dell’occhio, che cerca con accanimento l’invisibile senza mai potersi soddisfare. Così è anche Herzog: più è fisico, più denuncia una decomposizione, un difetto mostruoso, una lacerazione, l’enigma e la sua trasparenza.

(La stessa finzione che dire io che scrivo un saggio su una rivista per dei lettori).

Ma poi, a ben vedere, si filmano solo temperature - rocce, foreste, deserti, aria, acqua, fuoco, ghiaccio, sottosuolo. Possibilità di essere visti: zero.

mercoledì 21 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili

Lorenzo Esposito
Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
IV.
Cellule.
Nella campagna francese, sul limitare degli anni cinquanta del ventesimo secolo, si svolsero queste conversazioni:
“Ecco, il posto è questo”.
“Guarda, mamma, c’è anche il ruscello!”.
“Non vi allontanate troppo, bambini!”.
“Li lasci andare, è una così bella giornata...”.
“Oh, signor P., se lei sapesse cosa significa fare tutto da sola... Da quando mio marito...”.
“Prenda questo fiore”.
“E.. E... Grazie... Lei signor P. ci deve raccontare tutto della sua ultima scoperta... Sa, questa storia dell’immortalità... Per una donna sola... Vero Isabelle che ci deve raccontare tutto? Isabelle!”.
“Isabelle, ti stanno chiamando... Vieni, accarezza l’erba, la terra è umida e profumata...”.
“Sarà la signora Guerin, fammi sentire le tue mani, ecco, sorreggimi dietro il collo, è convinta che quello scienziato possa resuscitare il marito, ma tu ci credi a questa storia del rafforzamento delle cellule?”.
“Le foglie cambiano colore, un giorno o l’altro. Ora sono così verdi e limpide, poi luccicheranno affannate sotto la canicola, e poi arriverà il primo vento e i colori affievoliranno, ma c’è ancora una bellezza nell’incanutirsi, nel finire di tutte le cose... Isabelle, io...”.
“Oh, tu Marc, sei sempre così... Ma pensa quante persone si potrebbero aiutare, quante cose non verrebbero dimenticate, e poi tutti, tutti... Ma cosa succede laggiù? Cos’è questa musica... Aspetta, vado a vedere... Altrimenti la signora Guerin mi darà della maleducata, sai com’è fatta... Se avessimo le cellule più forti non ci scorderemmo dell’amore, e forse ci sarebbe sempre questo sole, che dici?”.
“... Ecco, per esempio, queste rughe, non mi guardi così signor P., queste rughe non ci sarebbero se si potesse rimanere giovani, anche se io proprio non riesco a immaginare... Oh, ecco Isabelle... Isabelle! Da questa parte! Ora signor P. ascolteremo la sua storia, e non dovrà nasconderci nulla... Dio, che bella giornata, la sente questa musica? Da che parte arriva? Sbaglio o si sta alzando il vento? Bambini, dove siete? Isabelle!? Ma guardi, è lì che si tiene la testa e non riesce a camminare... In effetti questo vento... Il mio cappello! Signor P...
L’eco non precisabile delle voci dei bambini, l’erba piegata, le persone ferme a metà strada a lottare con l’aria, le gonne roteanti, i cibi spezzati e travolti, il sole accecante in piccoli lampi. L. vide il signor P. alzarsi lentamente in volo, e dopo una prima incerta lievitazione, planare nel vento. Lo guardò bene: sul viso stampava un sorriso.

martedì 20 febbraio 2007

Il digitale non esiste - aforismi (48-51)

48. L’uomo solo strappato a se stesso assapora l’energia dolce dei sentieri che si biforcano, per un attimo non ponendosi limiti, dimenticando confini e linee divisorie. Fuori dall’isola, dove tutto era già uno smarginarsi e un immaginarsi, ora è veramente strappato via, cast away.

49. Ciò che è ridefinibile in maniera illimitata non è archiviabile se non parzialmente. Il digitale crede di poter assolvere a entrambi i compiti.

50. In Zemeckis non c’era bisogno del digitale per concepire l’immagine come stato mutante fra visibilità e apparenza, fra immagine e memoria dell’immagine (back to the future).

51. Al futuro è concesso solo di ritornare.

lunedì 19 febbraio 2007

Non si può vivere senza Rossellini (2)

(da "filmcritica" 571/572, gennaio-febbraio 2007)
Lorenzo Esposito


Roberto Rossellini: oltre il metodo


Non smetteremo mai - accademicissimi convegni a parte - di interrogarci sul fotogramma di Rossellini. A chiederci cosa, in quell’intuizione sull’immagine, preceda l’immagine stessa, a tal punto da renderne vane periodizzazioni e indicazioni di svolta.
Le incandescenze, quella particolare pervicacia rosselliniana nel rimettersi in circolo, di donarsi alla discussione, di sottrarsi al potere stesso dell’immagine, sono ovunque. Fonti inesauribili di scoperta e di accensione del dubbio, si oppongono all’idea stessa di film: quando sono film sono già superate, ridisseminate, pronte a germogliare altrove.
Così ha fatto bene Massimo Causo, nello speciale su Rossellini di quasi un anno fa, a arrischiare un cuore selvaggio nell’ombra di Anima nera (1962). Questa sorta di ultimo atto, insieme a Illibatezza, prima della ramificazione televisiva, scorre come un fiume sotterraneo cui il corso superiore attinge in cerca di acque pulite, e dunque non è affatto un caso ritrovarne in Wild at Heart di Lynch (ma anche in Lost Highway) non solo e addirittura intere sequenze e ‘trattamenti’ dei personaggi (quello di Cage è identico a Gassman), ma lo spirito e l’assoluta irreperibilità di metodo e percorribilità visiva rispetto al cinema dell’epoca. Anima nera non assomiglia a nulla che si facesse in Italia nel 1962 e, a ben vedere, neppure in Francia, per questa sua attitudine a concepirsi al di là degli aspetti sociologici e di scrittura (di Patroni Griffi), e anche saggiamente, e forse con maggiore spericolatezza, molto poco fiancheggiante la coeva combustione cinefila e di ‘riscrittura’ del mondo operata dalla nouvelle vague. Qui contano gli uomini e le cose nel punto in cui si infrangono sul muro ‘artistico’ che li vuole organizzare, conta la zona opaca che non permette all’immagine pose dimostrative, il lavoro dello sguardo a non farsi incanalare dal supposto messaggio, a non essere solo un film (un solo film in quegli anni sembrò - altrettanto ignorato - avere appreso la lezione: Morire gratis di Sandro Franchina).
The World Population (1974), conosciuto anche come A Question of People (unico film che ci è mancato all’appello nel già citato speciale di “Filmcritica” su Rossellini), è un altro caso emblematico. L’anno anzitutto: quel 1974 che include anche Cartesius e Anno uno, i film in cui Rossellini è così sintetico da verificare la sintesi stessa, sfrangiando la più che approfondita gestione del dato storico, in una conversione filosofica del singolo primo piano, di ciò che nessuna storia e nessuna metafisica è in grado di ricostruire o di trascendere, l’addensarsi semplice e cristallino del tempo su un volto, e la difficoltà a coglierne a pieno la luce del passaggio, di riasserire la vita nel suo inesorabile ritorno all’origine (di cui fa parte la sicurezza con cui per esempio Tag Gallagher afferma che di Rossellini in The World Population non c’è nulla, che il film è tutto del montatore Beppe Cino, non accorgendosi, in questo modo, di rientrare perfettamente nel disegno e nel metodo rosselliniano...).
Pianeti come cellule, visioni satellitari, e poi la discesa nella cellula-mondo: il popolo indigeno, le ruspe (per minuti alberi che cadono: siamo già a La foresta di smeraldo di Boorman), le metropoli, i villaggi, i deserti. Riprese aeree, zoom, primi primissimi piani, occhi e pelli bruciate, carrellate, scienza e ragione che rammendano l’uomo. È esattamente questo - l’origine - l’obiettivo (tecnica compresa): la perfetta non cinematograficità all’interno di una bellezza al contrario tutta filmica. Sublime il modo in cui in The World Population è impossibile distinguere il repertorio dal filmato (se lo vedesse Herzog, anche lui dovrebbe ricominciare daccapo), come se le immagini e la loro tematicità (in questo caso il problema dell’incremento demografico), appartenessero già al mondo e al mondo venissero riconsegnate.
Film capitale (e imprescindibile per ragionare su Rossellini), la cui intensità anche visiva è tutta con drammatica lucidità in equilibrio sul bilico di ciò che nell’immagine tende a farsi film, e nella ricerca di quello che in questo passaggio viene perduto, del tempo rimasto indietro, della vita ancora da vivere.

venerdì 16 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili

Lorenzo Esposito
Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
III.
Autofagia.
Nei primi giorni del XXI secolo, L. sbarcò sulla costa africana. C’era una grande confusione. Un uomo di nome Patrick dirigeva le operazioni di smistamento. Non si trattava più di emigrazione controllata, adesso l’accordo veniva concluso all’origine. Uno o più incaricati dislocati lungo i settori di divisione e un programma di ripartizione concordato fra gli Stati. Disponibilità, risorse, occupazione e un lungo interrogatorio. Una specie di laboratorio intra-etnico. Per tutti, poche speranze di partire. Alla fine dell’esame poteva succedere che l’incerto sudanese venisse riassegnato al Mali e lo spigoloso nigeriano al regno verde del Camerun, e così via. L’Africa si rimescolava. L’Africa mangiava autofaga pellicine intorno alle unghie.
Sul ponte grigio livido che collegava per chilometri le sponde aeree del deserto, qualcuno senza faccia si sporgeva. Guardava Patrick e stava per domandargli qualcosa, ma esausto già si voltava. Nel deserto si possono vedere cose che non esistono. Patrick percorreva per chilometri la linea di confine, e ogni volta era costretto a verificare che la linea si era spostata, che non esistevano confini. Ciò provocava lunghissime discussioni fra i membri del comitato al seguito dei lavori per conto dei vari Stati. Poichè non si trovava soluzione, alla fine di ogni seduta la mappa dell’Africa veniva modificata. Patrick allora uscì dalla tenda per guardare il tramonto, e lì dove la sabbia sembrava declinare verso l’orizzonte, vide chiaramente delle alture, dei laghi, degli alberi, un’automobile che girava in tondo come a rincorrere il sole. Salì sulla sua jeep e si diresse velocemente verso il centro della visione, ma superò altri mille confini senza che il paesaggio mutasse: non c’erano alture, non c’erano laghi, non c’erano alberi, non c’era alcun motorizzato predatore di sole.
L. si installò nell'attività febbrile. La sabbia gli scaldava i piedi, e il calore piacevolmente gli saliva fino alla base della nuca. Si sta bene, qui. Una mattina Patrick si alzò prima degli altri. Fece un giro d’ispezione, assicurandosi che le file di viaggiatori fossero sotto controllo. A quell’ora erano già svegli, e silenziosamente si preparavano a tentare di rompere gli argini. Lui aspettava il giorno in cui avrebbero capito come sfruttare a loro favore l’inconsistenza delle linee divisorie, smettendola di spingersi in avanti in linea retta. I percorsi erano specificamente pensati per trasformare il divieto a emigrare in un programma di riassegnazione globale, ma per questi abitanti del deserto la sabbia non aveva peso, stavano tutti di profilo a immaginarsi la costa dall’altra parte, con gli occhi abbandonati laggiù.
Mentre il sole sorgeva e le mosche e gli uccelli si alzavano in volo e i serpenti uscivano dalle tane, Patrick sentì queste domande: si sta parlando di confini o dell’uomo? Cosa si sa dei nostri confini di esseri umani? Cosa significa confine? In attesa di una risposta, il giovane nigeriano prese la sua telecamerina digitale e la portò sulla duna più grande, e poi la portò anche nella giungla profonda. Mentre camminava nel lungo carrello, inciampò nel fango, cadde, e si poteva vedere la spia rossa ancora accesa. Il ragazzo fece così col braccio per alzarsi, ma aveva una gamba rotta. Moscerini sull’obiettivo, che ancora registrava. Cominciò a piovere. Gocce sul vetro e tempesta di sabbia. Il fango si addensò in un ruscello d’acqua salmastra e il giovane nigeriano venne trascinato via. La telecamera scivolò nella stessa direzione e lo riprese mentre lui la guardava spinto verso il basso, e continuò a riprenderlo anche quando la sua corsa finì, sbattendo il capo sul tronco nodoso di un grande albero, perdendo i sensi e forse anche la vita. La telecamera scivolò ancora, riuscendo a scorgere i piedi di una bambina che correva, e più avanti, grazie a uno scossone, l’uomo che le stava accanto tenendola per mano. Ruotando fece in tempo a rubare un pezzo di cielo e un brano di città là sotto. Patrick notò che tutti i viaggiatori in attesa si erano cavati gli occhi.
L., che amava raccogliere e conservare documenti, prima di ripartire intercettò una lettera che Patrick scrisse prima di addormentarsi.

Avamposto 4b, raggiera maghrebina, gennaio 2000
"Ciao Sarah,
oggi il sole ha cominciato a manifestare i primi segni di insofferenza. La luce ha smesso di essere uniforme e i raggi scendono intermittenti. In molti hanno riportato strane bruciature, che sembrano indicare delle forme astrali, oppure vogliono solo dirci qualcosa del nostro passato. Sento molto la tua mancanza, soprattutto la notte, quando avrei bisogno del tuo calore. Ti ricordi quel viaggio sulle stelle dove non c’era più un unico sole, e noi correvamo a metterci sulle due colline più distanti per vedere quale faceva più luce? Spesso mi fermavo e girandomi ti guardavo correre, perchè mi piaceva come diventavi una macchia fuori fuoco e sembravi fatta d’aria. La notte quei due soli era come se non ci fossero mai stati, e solo il tuo corpo riusciva a farmi avere un po’ di calore. Qui invece qualcosa sta andando storto, o forse è andato storto tanto tempo fa, quando è stato creato prima il deserto e poi il mondo. Amore mio, quanta amarezza! Sono stato tutto il giorno a guardare la carcassa di un vecchio aereo che è comparso dietro una duna. Era così immobile e senza vita, non come sono le cose lasciate lì per caso, che invece hanno quella loro anima misteriosa, ma come la morte, fredda e gelida, di uno sconosciuto. Non ho avuto il coraggio di toccarlo, e ho dovuto anche litigare con il Comitato, perchè non mi trovavano, e una decina di viaggiatori aveva provato a superare gli argini suicidandosi, contemporaneamente sicuri di avere invocato il germe della trasmigrazione. Cosa c’è di là, amore? Cos’è questo desiderio selvaggio di passare dall’altra parte? Passare. Non è comune a tutti gli umani? Ho pensato: di umano è rimasto solo essere superati. Passare è umano. Ma ti sto annoiando. Tu come stai? Metti sempre il rossetto rosso che mi piace tanto? Come sei vestita? Mi manchi, mi manca il tuo sapore, mi manca la tua voce...”.

giovedì 15 febbraio 2007

(questo non è un) diario - contro la comunicazione

giovedì 15 febbraio 2007

Ecco il sistema.
Le scuole di cinema sono inutili edifici pensati per non far pensare.
Esse sono basate sulla dittatura della sceneggiatura, un oggetto insulso che rende imbecilli.
Non a caso gli Stati - segnatamente le cosiddette democrazie occidentali - fondano il loro sistema di finanziamento sulla sceneggiatura: non importa l'immagine, ma il controllo sull'immagine. Alle persone bisogna impedire di pensare, cioè di vedere.
Produttori, distributori, giornalisti, festival sono complici del sistema, sono funzionari di polizia.
La visibilità, il successo addirittura, sono solo comunicazione, il nucleo e il succo del sistema, cioè quanto di più drogato, prezzolato e ossessivamente ipocrita si possa concepire.
Fate come vi pare, ma noi, con Rossellini, sappiamo che la cinepresa è una tigre di carta!
loresp

Non si può vivere senza Rossellini (1)

da "Filmcritica" 565 maggio 2006
Lorenzo Esposito
Rosselini, ovvero il cinema ceduto alla realtà

La questione dello scrivere su Rossellini è che per prima cosa bisognerebbe interrogarsi sullo scrivere. Non basta trovare la giusta sequenza di parole, non basta mai. C’è una distanza dell’immagine, un suo essere già talmente lì e qui fra le cose, che nessuna parola sembra in grado di dire. Ci si può allontanare dal set, si può fare a meno della scena scritta, si può diffidare della tecnica e del suo potere, cercando non la parola, non l’immagine, ma la sequenza - breve o lunghissima - del suo avvicinamento alle cose, l’accostarsi duro e gentile, secco e vibrante con cui, sempre, se ne allontana. E solo così forse trovare la sequenza di parole che scorre indipendentemente dalla parola, la sequenza impersonale del film. Una tela sulla quale i colori vengono da sé, si riavvolgono da soli raccontando la storia del lavoro fatto per raggiungere lo stato e la dinamica dello stato, ciò che ri-guarda l’esistere.

Per esempio la parola tecnica. Lo zoom in Rossellini è una tecnica? O è una linea, una curva, una voluta, un galleggiamento, un manto, un mosaico, un battito, uno stacco, un tocco, un tratto, un fiato, un respiro, un ricordo, una distrazione, un moto di curiosità, un pensiero? E i set che ne sono attraversati? Pieni dell’utopia del mondo, universo e parziale, sembrano diventare fantasmi e proprio in quel momento sono reali. Non più immagini, ma l’immagine che da qua è riuscita a giungere (a esistere?) al di qua, non più immagine della, ma realtà.

L’essere, l’esistere, con Rossellini, dopo Rossellini, bisogna ora ritrovarli, trovare altre parole per dirli, parole sconosciute in una lingua sconosciuta. Cinema mai più ripetuto, film che non ha più bisogno del cinema e del filmare, per darsi ovunque, origine d’ogni sguardo, intenzione, rivoluzione, aspettativa, stimolo, nouvelle vague, underground, isolata telecamerina, singola rivendicazione di metodo, qualunque automatico intento epigono. E contemporaneamente questa realtà del cinema non si vede, ovunque coincide con da nessuna parte, compreso l’equivoco e la cancellazione. Ogni passo in Rossellini, verso Rossellini, è una nuova domanda.

Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata. E che pure la filma, dubitando però della consistenza stessa delle cose. Sospettando anzitutto del cinema, sospettando di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose (lo è così spesso il cinema, tanto che nelle sue histoire(s) Godard lo definisce né un’arte né una tecnica, e Rossellini nella sua Storia definisce se stesso non un artista ma un artigiano). E al contrario affrontando, fino a depotenziarlo, tutto ciò che nel cinema le anticipa e le precede (cedendovi alfine, cedendo loro qualcos’altro).

Solo questa è la verità (del cinema). Rossellini che si interrogava: “La morte, che significa ancora? La vita, che significa?”, raggiungeva la quotidianità media del vedere, si innestava nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio, e non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito. Il resto, le accuse di scarsa storicità e scientificità e di sciatteria dell’immagine, sono parte sostanziale di quest’ombra, di quest’arrancare dell’occhio nella lotta per la sua sopravvivenza. Non uno spazio, ma un tempo, cioè un materiale da lavorare, da arroventare, da sospendere. Come il ferro, come le nuvole, come un girar di testa, come la storia.

mercoledì 14 febbraio 2007

(questo non è un) diario


mercoledì 14 febbraio 2007
16mm, racconto della serie Villaggi irraggiungibili è stato pubblicato su "Vertigine", quotidiano letterario di Rossano Astremo: http://vertigine.wordpress.com/
loresp

Il digitale non esiste - aforismi (41-47)

41. Il digitale smaschera ciò che al cinema non è mai servito: i set e le sceneggiature. Così oggi qualsiasi cinema e qualsiasi film svaniscono non appena si convincono di poter tracciare confini e, peggio, di potersi comunicare.

42. Si vuole davvare essere comunicabili? Essere mediabili? Essere media? Essere media più abili? Abilitati a essere nella media?

43. L’uscir fuori dalla forma, da tutte le formalità della visione, proprio a partire da una forma mai vista prima, è il sogno già realizzato e mai abbastanza compreso di Walt Disney.

44. La natura imprecisa e zoppicante della simulazione digitale, fa dell’immagine una sorta di lapsus divaricato fra il desiderio di accorciare il margine con l’immagine stessa e la consapevolezza di non poterne toccare il fantasma se non mimandolo appena. Il tutto digitale di Polar Express di Zemeckis si assume la responsabilità di questa missione impossibile.

45. Il non-umano o simil-umano dell’immagine digitale, riprende il processo d’incredulità e fragilità e sacrificio connesso all’idea stessa del credere.

46. “E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Matteo 17, 2).

47. Quali sono i margini dell’immagine? La loro inesattezza e progressiva alterabilità, deve far parlare dell’immagine o di un’immagine? Quali sono i margini dell’immagine di Dio?

martedì 13 febbraio 2007

(questo non è un) diario

martedì 13 febbraio 2007
Tutti i blog hanno foto e ricercati abbellimenti. Varrà la pena - e quanto a lungo? - restar solo scritto?
loresp

Villaggi irraggiungibili

Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
II.
Demolizioni
Alzando gli occhi verso il cielo l’aria azzurra è tagliata da un cavo elettrico che segue la linea dei monti, come le case inerpicate sul colle attaccato alla strada.
In un giornale del 1951, L. recuperò la notizia di un terremoto che aveva costretto le autorità a evacuare il sud Italia. Poichè gli abitanti non si muovevano e avevano piantato i fucili nel fango, il governo decise di demolire tutte le case. L’idea era quella di allettare le miserabili zone circostanti con due mesi di lavoro ben pagato: i cittadini non avrebbero mai sparato sugli operai.
Si videro le schiene sudate luccicare al sole e mischiarsi alle macerie e alla polvere, in un’unica colata d’argento. L. giunse alla parte che lo interessava. Per sua natura una demolizione complessiva partiva dai tetti. Così gli operai avevano costruito una rete di cavi che univano nel cielo le cime delle case. Da sotto si potevano ammirare i battitori, che come acrobati passavano da un tetto all’altro tenendosi in equilibrio sulle nuvole. E quando il sole accecava la vista, erano i colpi mirati sulle pietre a indicare il cammino. Piegando il giornale, L. si accovacciò in attesa. Passando davanti al sole, gli acrobati procuravano piccole eclissi.

Più di cinquant’anni dopo, all’incirca nell’estate del 2005, L. giunse in Cina, nella valle delle tre gole, e riconobbe lo stesso reticolo celeste. Il paese costruito sulle pareti scoscese della grande conca stava lentamente sparendo sott’acqua. La diga non teneva, e vari anni di inondazioni stavano progressivamente annegando la cittadinanza. Il governo ci aveva pensato un po’ su, giungendo alla drastica conclusione: demolire.
A questa, si aggiunse la storia di un uomo venuto per cercare la sua donna, scomparsa da mesi. Durante le ricerche l’uomo divenne demolitore capo - lui così piccolo e brevilineo, ma servivano ali leggere per volare. Gli acrobati solcavano il cielo e le schiene rosse luccicavano. C’era un pittore che faceva ritratti agli operai. Li metteva in piedi sulla piattaforma e aspettava che trovassero una posa al sole. Erano tutti a torso nudo con delle mutande blu, sporche di calce e punteggiate di urina. Sui quadri i cavi non si vedevano.
Il piccolo demolitore disse ai suoi compagni: “Quando la vedrò, dopo averle parlato, partirò, e sceglierò uno di voi per sostituirmi”, e lo diceva mentre spaccava pietre. Chiedendo un po’ in giro, aveva scoperto che la moglie si era imbarcata come cameriera per pagare un debito. Le barche salpavano una volta al mese e una volta al mese tornavano per ancorarsi alla diga, ma questo prima, ora, durante la demolizione, ne venivano sempre meno, perchè anche la gente era sempre meno, e nessuno comprava il pesce.
Il piccolo demolitore decise di aspettare fin quando l’ultima casa fosse rimasta in piedi - anche una sola famiglia poteva significare ancora una barca... Al tramonto, quando la valle sembrava chiudersi a riccio nel contrasto di luce fra le foreste e le acque, saliva sulla terrazza più alta, e lì si prestava come modello al pittore. Si metteva in bilico, accovacciato, in modo che le ginocchia toccassero il mento, oppure camminava di spalle fumando a torso nudo, e sempre in modo da poter guardare all’orizzonte e, più sotto, alla zona d’attracco. Se vedeva arrivare una barca, faceva segno al pittore che avrebbero continuato domani.
Fermo in piedi sulla piramide di ciottoli, L. sosteneva la scena. Pensò che non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che l’amore sognava di perdersi, o forse solo di cadere. In tutti i suoi viaggi, L. aveva imparato che non si cade mai, perchè non si può cadere da un vuoto verso un altro vuoto. Non si cade, perchè il mondo è cavo.

Il digitale non esiste - aforismi (35-40)

35. Parole dell’era digitale: trasmissione, fruizione, archiviazione, manipolazione, discrezione, assemblaggio, omogeneità, interazione, standardizzazione, automazione, rappresentazione, simulazione, virtuale, globale.

36. Parole dell’era analogica: realtà.

37. Quando il digitale tenta di ricreare (di somigliare) il corpo umano, finisce sempre per fornirne una o la differenza. Benchè tenda al doppio (alla rappresentazione) sarà al massimo, ma il punto è che vuole esserlo, somigliante.

38. “La somiglianza fedele consiste proprio nel mostrare un’altra cosa rispetto alla corrispondenza dei tratti” (J-L. Nancy).

39. Usi e consumi dell’era digitale: siti web, videogame, cd-rom, dvd, telefonia cellulare, i-pod, realtà virtuale, telerobotica, computer graphic.

40. Usi e consumi dell’era analogica: realtà.

à rebours

ricevo e pubblico

10 febbraio 2007

"Caro Lo, il prossimo villaggio, o il villaggio vicino , dipende dalle traduzioni, è uno degli scritti più brevi e lancinanti di kafka; tracce di quel genere, meno pure, si ritrovano anche in martin buber nei sui racconti chassidici. sicuro di voler porre sotto la stella chassidica mooolto spaesante e perciò iscrivere all'erranza eterna il tuo blog? comunque ti leggo e ammiro la tua audacia infernal baci grandi da daniela".

lunedì 12 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili


Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta.


I.

16mm

Si era nel 1971. Da circa un anno, da estate a estate, L. sostava nella campagna italiana. Era un’estate cupa, quella, il sole faticava a filtrare i colori grigi e marroni dell'autunno innaturale che ingannava il tempo. Ma l’erba era verde e i fiori gialli, e la vita della piccola famiglia procedeva spedita. La piccola famiglia, papà mamma e figlia, guardava gli alberi sbattuti dal vento, e quando guardava meglio, vedeva l’erba nascere dall’erba, come un mondo sovrimpresso. Facevano lunghe passeggiate insieme, e il padre parlava molto, a se stesso e a loro. Sorrideva, e aveva degli occhi dolci, ma era anche serio, sorrideva con serietà, perchè parlava del futuro. Diceva: “Mamma, figlia, dobbiamo essere forti, ho scoperto che oggi e domani, oggi e domani fra altri cinquant’anni, saranno uguali. L’industria continuerà a produrre capolavori e i rivoluzionari abbandoneranno le cineprese. Guardare sul computer una donna in penombra che si spoglia all’altro capo della terra, con quei lampi e quelle smagliature di luce che non dipendono da nessuna videocamera montata sullo schermo, da nessun nastro, da nessuna assunzione digitale, ma solo dal movimento distratto della testa, dall’occhio che si apre e che si chiude per cercare di restare aperto, dalla cosa che è prima di ogni immagine e che non si sa cosa è - guardare l’ombra di questa donna sarà celebrare il futuro di mille poeti sotterranei che immergono le mani nella pellicola: un trasferimento di modulazione, malinconico cristallo di un apprendistato che secca gli occhi, fissi allo specchio di un film le cui immagini sono da dentro le pupille. Dovete essere forti, la morte non è poi così lontana, anche se il ricordo del futuro ha chiuso tutti i laboratori e la pellicola è diventata un bene raro, come l’acqua, e forse ne seguiranno nuove guerre. Oh, tutte le televisioni mostreranno adolescenti che crescono sui balconi, che oziano sul marciapiede sotto casa, che parlano dei sogni con le amiche, ma non ci sarà più alcun mistero sulla pelle rosa che sporge dalle gonne troppo corte, nessuna incertezza sull’autore: guardano tutte in macchina e sorridono. Le frontiere verranno aperte, e i metal detector non risuoneranno più di pellicole pericolose, vi ricordate, come quella volta in Turchia che hanno lasciato bruciare alla luce il mio film, la mia fiaba girata in esilio, ma si accenderanno per altri liquidi, e verranno sequestrati shampi, deodoranti, colluttori. La polizia sarà sempre fra noi, ma non fuggiremo più, ci avranno insegnato la delazione di noi stessi, ognuno sarà un poliziotto con il suo cane da guardia al guinzaglio. Tutto sarà chiaro, ordinato. Non ci saranno più tanti alberi isolati sbattuti dal vento, e non sempre la luna vista dalla finestra procurerà fantasmi. La sovrimpressione sarà vietata. Vietato confondere l’erba con l’erba. Vietato il silenzio. Vietato il tempo dilatato di un flash. Vietata la metamorfosi: guai a trasformarsi in cinepresa, guai a trasformarsi in donna, guai a trasformarsi in acqua, guai a trasformarsi in bambina. Tutti saranno tecnici, ma in pochi faranno film. Tutto sarà tra parentesi, prima ancora di subordinare il dono di una parentesi. Oh, le città ci guarderanno dall’alto, ci inquadreranno di giorno e di notte, dai semafori, agli angoli delle strade, le telecamere punteranno il sordo ronzio sul mondo. E dovete essere forti, perchè non ci sarà nessun varco, nessun modo di scoperchiare la terra e estrarne girati d’energia. Invece fino all’ultima goccia si estrarranno litri di oro nero e ci si sguazzerà dentro con gli eserciti. Saremo così morti, che non ci sarà più coscienza della morte, qualcosa che attiene al mondo e al modo in cui si svolge una vita. Gli spettacoli saranno così poco vitali, che non attesteranno alcuna morte, cioè nessuna idea, nessuno slancio, nessuna emozione, nessuna scoperta. I corpi non avranno pause, non si spegneranno nella fiamma di una candela, e non vibreranno nelle tempeste magnetiche. Tutti adoreranno idoli, ma l’amore sarà cosa rara. Sapete quando vi ho spiegato: abbiamo visto veramente, e di conseguenza anche la pellicola ha visto? Ecco, sarà l’esatto contrario”. E mentre diceva così, guardava l’erba, e guardava la mamma e la figlia negli occhi, e vedeva che non tutte le sue parole erano chiare, ma che c’era la fiducia necessaria, e che sarebbero state forti.

Poi il padre prendeva la sua cinepresa 16mm e la gettava nella valle. Si procurava metri e metri di pellicola negli sporadici mercatini nomadi che sorgono nelle giunture del pendio, nelle grotte che conducono alla città, labirinto di tunnel che qualcuno ha costruito tanto tempo fa. Ne comprava il più possibile, perchè i tunnel stavano lentamente sparendo, nessuno sa spiegarselo, e la città potrebbe diventare irraggiungibile. Si svegliava presto e con le prime luci correva a filmare il mondo. Filmava l’acqua, filmava l’albero, filmava l’ape che muore. Ma soprattutto filmava la figlia, che anche piccolissima sa cos’è una cinepresa, e appena nata, con grande stupore di tutti, con la mano fa ciao all’obiettivo. Oggi era l’attrice principale, seguiva il padre e gli faceva le scene. Una volta prese un’ape e la fece morire per la cinepresa.. La moglie anche è un’attrice, e il padre la filmava ovunque, la filmava nuda, oppure trattava lo sviluppo della pellicola per farla diventare una donna-cosmo, oppure un vampiro, o un'onda blu, o mille fantasmi che scivolano nella notte dalla finestra.

Un giorno la famiglia si accorse che la campagna cresceva a vista d’occhio. Più alta l’erba, più lontana la linea dell’orizzonte. Qualcuno raccontava che i tunnel si erano chiusi, ma la gente nei dintorni non ci faceva caso, qui c’è tutto quello che serve. Il padre stava tutto il tempo nel suo laboratorio, e a forza di fare bagni di pellicola, vide questo strano effetto, come se la terra si allungasse. Pensò a un abituale sfarfallio, o a un difetto di ripresa. Ma quando proiettò il film, la figlia disse: “La terra cresce”. Allora lui corse fuori, e puntò il 16mm verso il suo amato albero. Poi guardò lo spazio, e accanto all’albero ne stava crescendo uno nuovo. Restò sconcertato, e affascinato. Non era vero, la terra non stava crescendo, era la pellicola che stava rubando pezzi di mondo, e durante la sottrazione la campagna, per difendersi, si mangiava la città.

Il digitale non esiste - aforismi (26-34)

26. Anche la parola è un virus alieno. Quando Burroughs ne comprende il contagio, scoprendone ormai in fase avanzata il processo d’inoculazione, si decide a minarla dall’interno. Si provi a non pensare a nulla, quel semplice tentativo di silenzio interiore è già parola, corpo che si dibatte anche solo per dare la parola (al) nulla.

27. Il digitale è una re-visione del virus.

28. La parola è immagine, aggiunge Burroughs. Lo scrittore che decide di infiltrarsi nel mezzo del conflitto, vedrà a un certo punto se stesso come parte integrante dei due contendenti per esistere, e l’unica cosa che potrà fare sarà registrare questo stato mobile di continua riscrittura del visibile e del sé.

29. Similmente il digitale si occupa, rispetto alla costruzione dell’immagine, di ciò che le sta dietro e di ciò che le sta davanti. Ma in più il digitale ha il suo cuore in ciò che sta nel mezzo. E il mezzo è discontinuo.

30. Di fronte alla parola autofaga di Burroughs, anche il cinema più genialmente inesatto, cioè capace di sfuggire al suo inesorabile esserci (già) stato, sembra l’ultima pagina di una storia da lungo tempo conclusa.

31. Godard recita allora il discorso funebre: il cinema è un numéro deux.

32. Qualcuno sa indicare il numero uno?

33. Prima del digitale lo scivolamento da pellicola a nastro magnetico capta subito il nervo scoperto di una nozione di film non più slegata dal film più grande, da un rumore audiovisivo insieme diffuso e intermittente.

34. Il Pasto nudo si era talmente dis-fatto della parola che le immagini restavano lì, pronte a ridestarsi in preda a una furia veggente e profetica. Quando Cronenberg vi mette mano per trarne un film il risultato non può che essere un’ultima curva esplosa delle parole originarie, un riassetto perverso in cui il corpo dello scrittore annesso alla pagina viene sostituito da quello della pellicola che si separa dal film mentre questo si fa. E non c’è più controllo, non c’è più romanzo, non c’è più film.

Serie "Vanitas" (3)


Vanitas: vuoto di memoria


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


L’unica cosa reale è la decisione di scrivere. Conta solo assumersi la responsabilità. Prima ancora della parola (romanzo, poesia, saggio). Prima ancora del film o del regista. Prima ancora del cinema. Ma questa (la mia) è una generazione che, per timidezza o per vigliaccheria, nasconde i suoi entusiasmi, rinuncia alle sue scoperte, chiudendosi in un riserbo autoreferenziale. Prende le pagine e le immagini che ama e le serra nello scrigno di un io illusorio, senza che il grido erompa e il vento gelido tagli la faccia. Più ideologica dei suoi padri, sospetta che il mercato del denaro orienti qualsiasi scelta editoriale. E benchè questo sia quasi sempre vero, sceglie un silenzio che impedisce a se stessa di parlare attraverso quelle voci e toglie loro la possibilità di rimanere rivoluzionarie. Nessuna recensione, nessun film strenuamente difeso contro tutti, è sufficiente a assolverci dallo sterminio della scena politica, che è anzitutto lo sterminio di chi crede che un film non vi partecipi o che non abbia sempre a che fare col nostro parteciparvi e con l’esserne esclusi o auto-esclusi.
Io a sua volta è semplice. Io è una buona scappatoia per cominciare. Si dice io e le parole vengono da sé e ci si crede protetti, cullati dalla maschera, mimetizzati nel corpo di una parola che, una volta scritta, si finge non appartenga più. Ma ciò che si crede un’alba è già la fine del giorno. Questo liquido amniotico chiamato cinema, che se fosse solo il film - e non per caso nei film il cinema è sempre meno - sarebbe un alibi ancora maggiore.
Responsabile dunque sarebbe accettare che il cinema, la storia del cinema, è un vuoto di memoria, al massimo un’introduzione infinita (Godard docet), da qualunque parte lo si prenda (compreso “il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio e fatto a pezzi” di Artaud, opportunamente ricordato da Cappabianca nel numero scorso). Aurora è sempre la prima cosa che sovviene, un tram che avanza e all’arrivo la città è come un abisso. Poi subito una palude bruna e, oltre i raggi ultravioletti, insieme a Murnau, almeno Joseph H. Lewis (La sanguinaria) e King Vidor (Ruby fiore selvaggio) - fingendo di non verificare l’attinenza dell’automatismo con cui emergono in serie Fejos, Nick Ray, Kubrick, Herzog, Hill... Un tram che porta in città ma che è già una deriva, un tram dove si raccontano storie o si cantano canzoni, Chabrol (L’Œil du malin, La Rupture...), Monteiro (Va e vem), Skolimowski (Bariera). E perchè Murnau e non Griffith, visto che nell’ossessiva sperimentazione Biograph l’occhio è già una grande macchina impersonale proprio come l’aurora? Il problema di chi scrive di cinema è che la scrittura non è più un tabù (ecco perchè Murnau...?). Cioè non si può scrivere dell’altro (d’altro) se prima non ci si interroga sullo scrivere. Così il vuoto di memoria è giustamente inarrestabile e la storia stessa dovrebbe esserne il tabù. Il dito medio di Georgina Spelvin in The Devil in Miss Jones che si fruga fra le gambe aperte, è in un bagno forse, qualcosa di asettico comunque, rosso cupo, marrone infetto, mestruale, umido. Anche il Bressane di Tabu ruba pellicola muta porno e pellicola-Murnau, capovolgendola nel riciclo dell’accumulo. Il vuoto stesso è tabù. Lo è anche il reverse, guardare dietro e da dietro, l’occhio fra i tendaggi dello Scorsese Made in Milan, oppure sotto le tonache dei samurai in Tabù di Oshima, il cui cinema è da sempre un volto bianco vergine che si riflette nel riflesso ghiacchiato di una spada insanguinata...
Ma poi la flagranza del cinema capace di toccare la propria im-presentabilità, di afferrare per un istante l’illusione stessa di un luogo (invece è fuori luogo o al massimo in luogo di), può dimorare nella scissione folle dello scrittore che mentre dice io è già altrove e semplicemente non-è (l’ultimo formidabile Lunar Park di Bret Easton Ellis); oppure negli abissali mancamenti fra ogni singola parola, il neologismo stesso che diventa fuori campo, curvando oltre il tempo e diventando puro spazio (gli ultimi due seriali geniali Scasso con stupro e Jungletown Jihad di James Ellroy)...
La parola e l’immagine comprendono sempre il proprio intervallo, e dell’intervallo, qualunque esso sia, si deve provare a scrivere, ed è l’intervallo che si deve provare a filmare. Scrivere qualcosa in cui la parola non sia più che parola; filmare qualcosa in cui l’immagine non sia più che immagine. Sapere sempre la propria inadeguatezza.
Uno scrittore non scrive racconti, racconta l’orrore del raccontare. Se le parole mancano, se continuano a non sembrare quelle giuste, si è sulla buona strada. Oggi gli scrittori sono tanto filmici quanto è a-filmica la scrittura sul cinema. In entrambi i casi il cinema e lo scrivere rimangono in mezzo (nei casi peggiori un mezzo). Sarebbe già qualcosa limitarsi a studiare il punto di emissione (della parola e dell’immagine). Emettere per dismettere. Non scrivere per intervenire.

(questo non è un) diario

Roma, 12 febbraio 2007
1) Perchè non potrebbe mai esserlo, visto che la scrittura è sempre autobiografica.
2) Perchè gli unici diari che si scrivono sono quelli fra i nove e i sedici anni (se trovo il quaderno dell'epoca li pubblico).
3) Perchè la parola aggiornamento impedisce il colore notturno.
4) Perchè lo 'scoop' privato è una contraddizione in termini.
5) Perchè a chi ci chiede continuamente come viene fatto "fuori orario" abbiamo scelto di non rispondere.
6) Perchè l'immagine sfugge.
7) Perchè la parola è immagine.
8) Perchè è l'impresa più ardua raggiungere il giusto vuoto.
9) Perchè non so se c'è tempo anche solo per imboccare la strada del prossimo villaggio.
10) Perchè scrivo solo se l'angolo di una stanza si illumina d'un tratto e posso correre a infilarmi nell'incrocio delle pareti.

venerdì 9 febbraio 2007

Il digitale non esiste - aforismi (11-25)

11. L’ossessione di Vertov per l’occhio meccanico fa sì che l’immagine scorra ritmicamente solo a patto di far sentire non solo il lavoro compiuto per ottenerla, ma i singoli istanti della composizione nel momento stesso in cui ri-accade davanti ai nostri occhi. La visione diventa intervallo, si pone fra rappresentazione e immagine tentando di mostrare l’origine del loro accoppiarsi creativo. L’artificio della macchina è la prima illusione. La tecnica è il vedere.

12. Non c’è mai origine, c’è un nucleo indistinto che precede il farsi immagine del pensiero.

13. Nei due Spiderman di Raimi tutte le prospettive aeree, le angolazioni, le inclinazioni radenti il corpo della città, parlano dell’impossibile ritorno all’origine. Esse sono un’immagine internamente dialettica, continua e discontinua, in salita e in discesa, una linea spezzata, uno sguardo al suolo e un’improvvisa panoramica dall’alto: l’intervallo fra ciò che si vede e il vedere. L’andamento claudicante e fragilissimo fra digitale e pellicola coincide con la perdita dei poteri dell’eroe. La tela del ragno dipana i fili dell’immagine sulla linea dell’orizzonte, tentando follemente di strapparsi al corpo e alla maschera. Il vedere digitale ha le medesime imperfezioni di un ragazzo adolescente caricato di grandi responsabilità: inciampa, zoppica, sbaglia, dimentica, si distrae, non vede.

14. Quando il cinema arriva a costituire un flusso di tempo non conosciuto, non presente nella realtà, contemporaneamente denuncia l’illusorietà di tale movimento.

16. “Un albero è un albero, filmatelo in Griffith Park” (un produttore a King Vidor sul set di La folla).

16. La questione riguarda il rapporto fra la macchina e l’esterno. Non solo i diversi gradi di realismo, ma l’atto in sé della riproduzione. Che senso ha cercare proprio quell’albero, visto che non di un albero si tratta ma di un’immagine?

17. Il meraviglioso in Méliès testimonia l’automatismo inconscio di ogni effetto di illusione. È questa traccia dell’esperienza della macchina a costituire la soglia che conduce per opposto alla sospensione della realtà teorizzata dalle cosiddette vedute dei Lumière.

18. Fatale che i Lumière debbano ripetere la sequenza dell’uscita dalla fabbrica degli operai. Ineluttabile la presa d’atto d’essere dinanzi a una processualità provvisoria che abbandona la realtà e diviene la realtà di un passaggio, cioè, come in Méliès, il documento del fantastico dell’immagine.

19. La realtà è un documentario? I documentari di Herzog si lasciano alle spalle finzioni e finzioni di documentario, obiettivi, supporti e grane, dichiarandone la sostanza aliena. Non si chiedono più cosa filmare, ma come il mondo filmerà se stesso. Non vogliono filmare cose mai viste, ma cose che non esistono (e quindi che non si vedono?).

20. L’unico grado di realtà connesso al digitale sta nel fatto che la cosa reale davanti a un dispositivo di ripresa gli è aliena.

21. Il difficile, ma anche l’avventuroso e il tragico, sta nel cammino di ciascuno per ri-conoscere il proprio vedere, per accorciare la distanza che separa il tempo già passato di qualunque immagine e ciò che ci appare come la nostra vista.

22. Herzog in Grizzly Man, The White Diamond e The Wild Blue Yonder sa che il visto è già il primo livello di invisibilità, che l’immagine è lì da un tempo e in un tempo incalcolabili e non importa chi o cosa c’era o mancava dietro e davanti alla macchina da presa. Ecco allora una segno di vita: il documento viene reso indocumentabile.

23. Le poche immagini che ci è dato vedere nei film, non sono un’aggiunta a tutte quelle dei film precedenti, ma un altro tratto di discesa, una sottrazione di effetti che, forse, potrebbero un giorno condurci indietro all’occhio.

24. Sprofondare lentamente nell’idea di un film. Passo dopo passo provocare una rottura nel documentario attraverso la dialettica fra immagine e parola, la parola che cede e l’immagine che sembra pro-cedere da sola. Si chiama finzione - l’immagine, che si finge divaricata fra documentario e finzione...?...

25. Sono le parole a sfiorare l’invisibile. Il documentario manca la realtà, ne è appena un’eco, tanto più falsa, quanto più documentata. Mai visto nessun regista, come Herzog, così intenzionato - in qualche modo misterioso quasi obbligato - a mettere in scena, soprattutto quando documenta.

Serie "Vanitas" (2)


Vanitas: la lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Ma poi l’immagine è già il suo sdoppiamento, tale e in quanto immagine, la cosa di cui si parla dopo, ciò che permette di rivelarla, cioè di dirla e insieme di rioccultarla, dirne l’impossibilità d’essere ridetta. La vanità della parola è nel suo esser vana. La vanità del cinema è nel suo esser vanamente ridetto e parlato. L’unico cinema ‘utile’ è quello che non si può dire a parole, cioè per paradosso quando la parola si affranca dal vedere. Quando crea un nuovo mondo. La grazia discreta con cui Pochaontas si fa stringere nelle vesti e nelle scarpe strette dell’Occidente già per sempre malato - mentre l’indiano passa radente sulle chiese e nei cimiteri e infine spalanca la porta sull’ultima fuga. Quando dunque si infrangono le regole della parola filmata snodandola in un intrico che fa a meno dell’immagine nel momento stesso in cui la apre, la fende dall’interno, facendo del sangue un moto ondoso che unisce l’increspatura dell’onda alla risacca. Scrivere di cinema è azione temporalmente più avventata del cinema stesso - in mare aperto o a riva, dove si sceglie di stare? Straub-Huillet, al centro della domanda, non sono neanche più la parola, sono la corda vocale che vibra, prima ancora dell’onda. Malick riesce ad affogare a largo e poi anche a rifluire leggero dove l’onda muore.
Nei flussi e nei flutti la scrittura si erige comunque - c’è chi ci sopravvive e chi le sopravvive - e (si) muore un poco. Cosa significa recensione? Per etimologia “l’operazione intesa a restituire un testo all’esatta lezione (...)”, che per estensione diventa “esame critico, in forma di articolo più o meno esteso, di un’opera (...)”. Cioè dove la filologia incontra il sistema poliziesco del giudizio. Non a caso Walter Hill, duro e timido, a suo modo si affannava a ripeterci: ma perchè vi dovrei rispondere? La critica non ha niente a che fare con l’immagine, né con la scrittura, se non per la coazione a ripetere di una doppia non trasmissibilità: scrivere dell’immagine quando già la parola è immagine. Basterebbe forse qualche piccolo tenero riconoscimento - nell’Hill ancora in lavorazione, un western di tre ore per la tv dal titolo provvisorio di Daughters of Joy (poi Broken Trail), dieci minuti per vedere l’ombra di Hawks in allungo, la semplice scorza dura del primo piano, del dialogo, del viaggio, della terra, ma sempre così lontanto da ciò che si crede di aver visto...
Profili confusi. Brevi nitidezze. Improvvise accensioni di una memoria che manca. Di questo forse si può scrivere. Di John Ford, l’unico in cui la chiarezza adamantina nasce direttamente dalle ombre, dai non detti, dal richiamo di tutto un mondo che non c’è bisogno di filmare né di scrivere perchè è già l’eco perpetua di sé, come quella madre (Maureen O’Hara) che in Rio Grande bacia tre volte il figlio nella tenda notturna, immaginando per ogni bacio una storia ancora da raccontare - protettiva sulla fronte, giocosa sul naso, perversa sulle labbra. Scrivere di cinema è il bacio incestuoso dell’interdetto, tempo donato al tempo, un margine, un brandello di verità laddove rappresentazione, ricostruzione, figurazione sono sempre altrettanti falsi - falsi culti e falsi d’autore.
I nomi, i titoli: ulteriore mascheramento dell’impossibile processo unitario, nel cui orizzonte si scorge pure il non meno ipocrita gioco del potere di chi può vedere di più, per lavoro o per privilegio è questo il punto critico. Ma le appartenenze sono infine solo a se stessi, a quel qualcosa che si trattiene - addosso e nella memoria. Elenchi, resti, cose viste, cose viste attraverso gli altri, cose solo annotate. Lo Tsukamoto di Haze, unico a credere ancora nel corpo-cosa, che la cosa sia il corpo, e ci si chiede chi filma mentre lui si fa schiacciare dalle pareti, affogare e torturare nei cunicoli bui, nel vuoto pneumatico di una camera cinema senza luogo. La seconda parte, quella in fuga, di The Island di Michael Bay, tolto dall’impaccio del ricalco lucasiano per un momento riesce a far scivolare la scoperta della velocità nella pesantezza ferrosa di un action che si credeva morto (vicino in questo al Mostow di Terminator 3). Il caso Luketic, di questi due film, La rivincita delle bionde e Quel mostro di mia suocera, di filigrana così hawksiana, talmente lucidi e leggeri da risultare invisibili, sorpresi e sorprendenti in un ritardo areiforme. Ring 2, altrettanto non visto, sicuramente il migliore di tutta la serie, Hideo Nakata americano che fa meglio di Hideo Nakata giapponese, anche lui sedotto dalla potenza dei mezzi, che li guarda agire con fare assorto e quasi inerme. Spanglish di James L. Brooks, se una tenuta del set e dell’aria fra i corpi (ma certo: tutti anonimi) che ricorda Lubitsch viene scambiata, in senso scioccamente spregiativo, per deriva televisiva... Se, appunto. Ma anche così, non serve a niente.

"Il prossimo villaggio" di franz kafka

Mio nonno soleva dire: "La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata".

giovedì 8 febbraio 2007

Il digitale non esiste - aforismi (1-10)

1. Chiunque abbia viaggiato sa quanto sia difficile distinguere gli umani dai fantasmi.

2. Nelle università definiscono l’immagine digitale un’immagine ottenuta in assenza del referente. Cercano le parole per dire: un’immagine di fantasmi che sogna di vedersi realizzare (dagli umani).

3. Da analogico a digitale: ciò che comunemente viene concepito come passaggio e provenienza, è una sintesi ulteriore (e meno perfetta) di numeri e di spettri.

4. Anche i computer, quando vengono spediti nel nero vuoto dello spazio, temono i fantasmi. Hal 9000, un ciclope fra le stelle, letteralmente ne viene accecato.

5. Per fortuna, grazie a queste immagini che nascono dal nulla, non bisogna avere paura di non essere alla moda. Marker, in una lettera scritta al cineasta russo Medvedkin, annotava: “Ma, guarda cos’è successo ai dinosauri... i bambini li adorano”.

6. Viaggiare è insieme illusione e documento dell’esperienza. L’esperienza riguarda allo stesso modo degli stati interiori e l’instabilità temporale della materia esterna presente in natura. Secondo Bergson questo divenire è la durata, un progredire di istanti diversi e separati che in realtà forma un flusso continuo nel quale passato e presente si compenetrano. L’essere umano, per stare in questo flusso, compie dei falsi movimenti, vede solo a una certa velocità, in modo che il flusso stesso venga interrotto e sia possibile intuirne i singoli stati. Si tratta di una deformazione ottica analoga al fenomeno della persistenza retinica. Qualcosa in movimento, come la realtà, che tuttavia per ‘esserci’ ha bisogno di fermarsi su delle transizioni e farne degli oggetti parziali e discontinui, delle istantanee. Quindi viaggiare è sinonimo di sparire.

7. C’è un’altra complicazione. È noto che il digitale include una base analogica. Ciò che lo caratterizza non è tanto l’abbattimento del rapporto di causalità diretta fra il mezzo e il dato trasmesso - questo semmai è l’effetto primariamente visibile - ma il codice numerico - invisibile - di cui si compone la trasmissione: la cifra, il carattere, la parola.

8. Gibson non è solo l’inventore del cyberspace. Egli costringe il carattere della sua parola a sollecitare un tempo che sta fra un picco di brevità e uno di elasticità, esaminando l’inconscio collettivo più stringente dei nostri giorni: quella sensazione strisciante che tutto è sempre uguale e che tutto è appena mutato. Altrimenti definibile come l’adesso digitale.

9. Dick riannoda la cifra all’immagine, costringendo lo sguardo a sospendersi fra ora e ora, a scrutarsi in senso inverso. La parola scritta e l’immagine si infiltrano l’una nell’altra sospettandosi a vicenda. L’identità si divarica e gli schermi coincidono con la trasmissione. Anche a chiamarle interfacce, è del fantasma dell’immagine che si sta parlando.

10. “La riproduzione dell’illusione non è in un certo modo anche la sua correzione? Si può concludere dall’artificialità dei mezzi l’artificialità del risultato?” (G. Deleuze).

Serie "Vanitas" (1)


Vanitas: sogno snuff


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


In realtà si sogna di vedere meno. Si sogna una sottrazione il cui soggetto mancante sia la visione. Si cerca vanamente l’invisibile al principio di un mondo continuamente riscritto, la sigaretta che brucia all’altezza della riscrittura (il Lynch di Wild at Heart già si assestava dalle parti della combustione). Il fumo è già nei polmoni, l’immagine è già del mondo. Per questo l’angelo-fotogramma in Cigarette Burns di John Carpenter nel finale si riprende il film e si ridà alla pellicola, per riconsegnarla al fuori, dove non ha mai smesso di girare, dove è sempre stata. La storia a ritroso, il mondo già filmato. In questa uscita dell’angelo dalla sala Carpenter riporta la cosa dove essi - noi? - vivono. Il film maledetto, cui l’angelo stesso apparteneva, non a caso si intitola La fin absolue du monde, che è un semplice dire descrittivo di quello che sta accadendo là fuori. È averlo strappato da lì - qui? - che provoca disastri dentro, al cinema (impossibile non pensare all’Abel Gance di La fin du monde, dove la fine ha inizio in un cinema in cui si proietta un film sulla passione di Cristo). Intestini che si sostituiscono alla pellicola, arti mozzati, incisioni sulla pelle, bruciature, omicidi, sempre la stessa recensione riscritta per tutta la vita perchè il vero sogno snuff è la parola, la ricerca della parola giusta (io stesso so di star scrivendo la stessa cosa, questa cosa, da molto tempo, per vanità forse, fascino dello sperpero, dello sperperare se stessi in un automatico specchiarsi).
In fondo ci si interroga sul pensare. E si giunge al punto in cui la domanda - dello scrivere e del guardare, per quanto vani o vanitosi - si oltrepassa, non è più lo specifico della domanda, ma l’apertura, la questione dell’uomo e di Dio. Non dare risposte, ma domandare la possibilità di domandare. Non è più il film, per quanto mai visto e per quanto leggendario, ci dice Carpenter, ma ciò che continua dopo i titoli di coda e che proseguendo si accorge di essere sempre stato là, cosa vista dalla cosa prima ancora d’essere filmata. Non più cos’è il cinema, ma cos’era prima il cinema, cosa c’era prima del cinema.
Il cinema domanda passato. È la realtà della discontinuità del reale (questo, più di tutto, aveva compreso Rossellini). Indaga e mette in questione la memoria (di sé, dell’altro, della cosa prima). Si attesta fra l’origine e il tempo che con duplice movimento la allontana e la ripete all’infinito. Interroga il passato, è una domanda al passato. Perciò l’immagine fa paura, perchè proprio perdendo la memoria, cioè passando in infinite memorie, ne permette una resistenza, talvolta anche un recupero intermittente.
Recupero che passa per una riperdita. Le stesse tecnologie di visione possiedono l’ingenuità di permettere di ritornarci sopra (non al film, ma al film della memoria perduta), sicure di essere solo tecnologie. Dario Argento ci torna sopra di continuo alla paura dell’immagine. A partire dal televisivo Do You Like Hitchcock?, così rosselliniano nel volersi affidare al ‘cinema cinema’ (di cui Hitchcock è solo la nominazione immediata). Indifferente alle sceneggiature, ma affascinato dal guardare quel tanto che basta a diffidarne, usa il potere del cinema per sconfiggere il potere del cinema (ovvio che si parta dalla televisione, che con anche maggiore automaticità nega il concetto stesso di memoria. Argento, incompreso, ha cominciato questo discorso fin dai precedenti Nonhosonno e Il cartaio). E poi in Jenifer, l’episodio più bello insieme a quello di Carpenter della serie tv Masters of Horror, producendo di nuovo uno schock che solo apparentemente riguarda il corpo meravigliosamente mostruoso della bella-bestia (qui in un corpo unico), ma che invece viene eroticamente spinto verso l’accecamento, verso il visivo divaricato fra orrore e perversione.
Il cinema (ci) ricorda che non c’è dialettica senza che la fine della domanda coincida con l’inizio della successiva. Non a caso l’odierna politica, che è sempre, suo malgrado, politica dell’immagine, nega la domanda in sé: la domanda non ha bisogno di essere immediatamente intellegibile per porsi, anzi non lo è mai. Tanto che sempre più di frequente costringe colui che la esplicita a restare inedito. Dominion - Prequel to the Exorcist di Paul Schrader rigirato ex novo da Renny Harlin (che fra l’altro fa un film più che interessante, che gioca l’horror sottoforma di action spossante, ma colto da inatteso insuccesso di pubblico. Cecità del capitale). Cosa non quadra nella domanda schraderiana? La meditazione fordiana, lo scorrere del bene e del male oltre ogni filiazione, il superamento di ogni conciliazione iconografico-religiosa. Ford e la sua epica familiare, Ford e i suoi rapporti di sangue, Ford e la sua vasta terra magnetica che quei rapporti li mescola in un fiume denso che ricerca la bellezza nella fragilità e nella passione di ciò che è spurio (I cavalieri del nord-ovest, I tre della croce del sud, Missione in Manchuria...). Tutto questo è Dominion. Alla carne che si ammala dall’interno di Friedkin, all’abisso filosofico di Boorman, Schrader aggiunge l’impronunciabile assenza di Dio. Quell’immagine la cui domanda si pone sempre in quanto vana.

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Il Blog di Lorenzo Esposito