venerdì 2 marzo 2007

Il digitale non esiste - aforismi (52-65)

52. Lo status teorico di immagine simulata è diffuso ben al di là delle funzionalità digitali. Soderbergh o Tarantino, pur facendone limitatissimo uso, sono registi digitali.

53. Soderbergh mima Hollywood, finge una recita il cui imprevisto si annida appunto nei margini previsti e prevedibili della sceneggiatura e dove il full frontal significa l’esatto opposto, ossia tutto ciò che passa di lato, inatteso, non ancora archiviato.

54. Tarantino trasforma un’immensa biblioteca di memoria cinetelevisiva in una grande e tragica interrogazione sull’archeologia dei corpi, sull’occhio gettato fra spezzoni e ritrovamenti, sulla costruzione e insieme sull’istantanea deperibilità del sapere audiovisivo in quanto tale. Sul concetto di virtuale non c’è nient’altro da aggiungere.

55. In ritardo si è compreso come il corpo si fosse già dissolto nella forma industriale post-romantica dell’arte che è il cinema. Il digitale è retroattivo.

56. “Con tutto ciò, tutte le considerazioni che partono dal soggetto restano false nella misura in cui la vita è divenuta apparenza. Poichè, infatti, nella fase presente dello sviluppo storico, la prepotente oggettività di quest’ultimo consiste solo nella dissoluzione del soggetto, senza che un nuovo soggetto sia nato nel frattempo dal suo grembo, l’esperienza individuale poggia necessariamente sul vecchio soggetto, storicamente condannato, che è ancora per sé, ma non è più in sé. Esso si crede ancora certo della propria autonomia; ma la nullità dimostrata ai soggetti nei campi di concentramento investe ormai la forma stessa della soggettività” (T. W. Adorno).

57. L’essenza delle Star stava nel proteggere e nel proteggersi da questa crisi.

58. Godard ha detto: “Ogni film è un documentario sul volto e sul corpo dei suoi attori”. Oggi dobbiamo dire: ogni film è un documentario sul corpo dell’immagine.

59. In Kill Bill Uma Thurman non è un corpo combattente, ma un colore. È il giallo, il cuore solare su cui scintillano i fendenti delle spade, sul quale si impasta il rosso del sangue e il rosa che sale sulle guance durante la battaglia, il bianco latte di una neve improvvisa su cui si attutisce il mondo per l’ultimo duello.

60. Da questi corpi critici emergono due parole: identità e esilio.

61. Io è semplice. Io è una buona scappatoia per cominciare. Si dice io e e le parole vengono da sé e ci si crede protetti, cullati dalla maschera, mimetizzati nel corpo di una parola che, una volta scritta, si finge non appartenga più.

62. Io, ovvero questo liquido amniotico chiamato cinema, che se fosse solo il film, sarebbe un alibi ancora maggiore.

63. La stessa flagranza del cinema può dimorare nella scissione folle dello scrittore che mentre dice io è già altrove e semplicemente non-è. Oppure negli abissali mancamenti fra ogni singola parola, il neologismo stesso che diventa fuori campo, curvando oltre il tempo e diventando puro spazio. È il caso, rispettivamente, di Bret Easton Ellis e di James Ellroy.

64. I grandi cineasti si vedono quando il film tocca l’impersonalità della macchina. Non quando dimostrano di saper vedere, ma quando la cosa filmata è lo sguardo stesso. I grandi cineasti sono im-presentabili.

65. “Il presente è solo dei brutti film” (J.-L. Godard).

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