martedì 13 febbraio 2007

Villaggi irraggiungibili

Racconti sui prossimi villaggi irraggiungibili e sul tempo che non gli basta
II.
Demolizioni
Alzando gli occhi verso il cielo l’aria azzurra è tagliata da un cavo elettrico che segue la linea dei monti, come le case inerpicate sul colle attaccato alla strada.
In un giornale del 1951, L. recuperò la notizia di un terremoto che aveva costretto le autorità a evacuare il sud Italia. Poichè gli abitanti non si muovevano e avevano piantato i fucili nel fango, il governo decise di demolire tutte le case. L’idea era quella di allettare le miserabili zone circostanti con due mesi di lavoro ben pagato: i cittadini non avrebbero mai sparato sugli operai.
Si videro le schiene sudate luccicare al sole e mischiarsi alle macerie e alla polvere, in un’unica colata d’argento. L. giunse alla parte che lo interessava. Per sua natura una demolizione complessiva partiva dai tetti. Così gli operai avevano costruito una rete di cavi che univano nel cielo le cime delle case. Da sotto si potevano ammirare i battitori, che come acrobati passavano da un tetto all’altro tenendosi in equilibrio sulle nuvole. E quando il sole accecava la vista, erano i colpi mirati sulle pietre a indicare il cammino. Piegando il giornale, L. si accovacciò in attesa. Passando davanti al sole, gli acrobati procuravano piccole eclissi.

Più di cinquant’anni dopo, all’incirca nell’estate del 2005, L. giunse in Cina, nella valle delle tre gole, e riconobbe lo stesso reticolo celeste. Il paese costruito sulle pareti scoscese della grande conca stava lentamente sparendo sott’acqua. La diga non teneva, e vari anni di inondazioni stavano progressivamente annegando la cittadinanza. Il governo ci aveva pensato un po’ su, giungendo alla drastica conclusione: demolire.
A questa, si aggiunse la storia di un uomo venuto per cercare la sua donna, scomparsa da mesi. Durante le ricerche l’uomo divenne demolitore capo - lui così piccolo e brevilineo, ma servivano ali leggere per volare. Gli acrobati solcavano il cielo e le schiene rosse luccicavano. C’era un pittore che faceva ritratti agli operai. Li metteva in piedi sulla piattaforma e aspettava che trovassero una posa al sole. Erano tutti a torso nudo con delle mutande blu, sporche di calce e punteggiate di urina. Sui quadri i cavi non si vedevano.
Il piccolo demolitore disse ai suoi compagni: “Quando la vedrò, dopo averle parlato, partirò, e sceglierò uno di voi per sostituirmi”, e lo diceva mentre spaccava pietre. Chiedendo un po’ in giro, aveva scoperto che la moglie si era imbarcata come cameriera per pagare un debito. Le barche salpavano una volta al mese e una volta al mese tornavano per ancorarsi alla diga, ma questo prima, ora, durante la demolizione, ne venivano sempre meno, perchè anche la gente era sempre meno, e nessuno comprava il pesce.
Il piccolo demolitore decise di aspettare fin quando l’ultima casa fosse rimasta in piedi - anche una sola famiglia poteva significare ancora una barca... Al tramonto, quando la valle sembrava chiudersi a riccio nel contrasto di luce fra le foreste e le acque, saliva sulla terrazza più alta, e lì si prestava come modello al pittore. Si metteva in bilico, accovacciato, in modo che le ginocchia toccassero il mento, oppure camminava di spalle fumando a torso nudo, e sempre in modo da poter guardare all’orizzonte e, più sotto, alla zona d’attracco. Se vedeva arrivare una barca, faceva segno al pittore che avrebbero continuato domani.
Fermo in piedi sulla piramide di ciottoli, L. sosteneva la scena. Pensò che non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che l’amore sognava di perdersi, o forse solo di cadere. In tutti i suoi viaggi, L. aveva imparato che non si cade mai, perchè non si può cadere da un vuoto verso un altro vuoto. Non si cade, perchè il mondo è cavo.

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