giovedì 15 febbraio 2007

Non si può vivere senza Rossellini (1)

da "Filmcritica" 565 maggio 2006
Lorenzo Esposito
Rosselini, ovvero il cinema ceduto alla realtà

La questione dello scrivere su Rossellini è che per prima cosa bisognerebbe interrogarsi sullo scrivere. Non basta trovare la giusta sequenza di parole, non basta mai. C’è una distanza dell’immagine, un suo essere già talmente lì e qui fra le cose, che nessuna parola sembra in grado di dire. Ci si può allontanare dal set, si può fare a meno della scena scritta, si può diffidare della tecnica e del suo potere, cercando non la parola, non l’immagine, ma la sequenza - breve o lunghissima - del suo avvicinamento alle cose, l’accostarsi duro e gentile, secco e vibrante con cui, sempre, se ne allontana. E solo così forse trovare la sequenza di parole che scorre indipendentemente dalla parola, la sequenza impersonale del film. Una tela sulla quale i colori vengono da sé, si riavvolgono da soli raccontando la storia del lavoro fatto per raggiungere lo stato e la dinamica dello stato, ciò che ri-guarda l’esistere.

Per esempio la parola tecnica. Lo zoom in Rossellini è una tecnica? O è una linea, una curva, una voluta, un galleggiamento, un manto, un mosaico, un battito, uno stacco, un tocco, un tratto, un fiato, un respiro, un ricordo, una distrazione, un moto di curiosità, un pensiero? E i set che ne sono attraversati? Pieni dell’utopia del mondo, universo e parziale, sembrano diventare fantasmi e proprio in quel momento sono reali. Non più immagini, ma l’immagine che da qua è riuscita a giungere (a esistere?) al di qua, non più immagine della, ma realtà.

L’essere, l’esistere, con Rossellini, dopo Rossellini, bisogna ora ritrovarli, trovare altre parole per dirli, parole sconosciute in una lingua sconosciuta. Cinema mai più ripetuto, film che non ha più bisogno del cinema e del filmare, per darsi ovunque, origine d’ogni sguardo, intenzione, rivoluzione, aspettativa, stimolo, nouvelle vague, underground, isolata telecamerina, singola rivendicazione di metodo, qualunque automatico intento epigono. E contemporaneamente questa realtà del cinema non si vede, ovunque coincide con da nessuna parte, compreso l’equivoco e la cancellazione. Ogni passo in Rossellini, verso Rossellini, è una nuova domanda.

Cosa vuol dire realtà? Null’altro che l’inganno che la vorrebbe da filmare (neorealistica), quando è già tutta filmata. E che pure la filma, dubitando però della consistenza stessa delle cose. Sospettando anzitutto del cinema, sospettando di chi lo crede illustrativo, rappresentativo, figurativo, stilistico, addirittura posteriore alle cose (lo è così spesso il cinema, tanto che nelle sue histoire(s) Godard lo definisce né un’arte né una tecnica, e Rossellini nella sua Storia definisce se stesso non un artista ma un artigiano). E al contrario affrontando, fino a depotenziarlo, tutto ciò che nel cinema le anticipa e le precede (cedendovi alfine, cedendo loro qualcos’altro).

Solo questa è la verità (del cinema). Rossellini che si interrogava: “La morte, che significa ancora? La vita, che significa?”, raggiungeva la quotidianità media del vedere, si innestava nella banalità di tutto ciò che sfugge all’occhio, e non nella direzione di un vedere assoluto, quanto del suo opposto, del naturale accordarsi della visione a ciò che rimane nell’ombra, legando intuito e rimozione in un solo gesto apparentemente e ricercatamente fortuito. Il resto, le accuse di scarsa storicità e scientificità e di sciatteria dell’immagine, sono parte sostanziale di quest’ombra, di quest’arrancare dell’occhio nella lotta per la sua sopravvivenza. Non uno spazio, ma un tempo, cioè un materiale da lavorare, da arroventare, da sospendere. Come il ferro, come le nuvole, come un girar di testa, come la storia.

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