lunedì 19 febbraio 2007

Non si può vivere senza Rossellini (2)

(da "filmcritica" 571/572, gennaio-febbraio 2007)
Lorenzo Esposito


Roberto Rossellini: oltre il metodo


Non smetteremo mai - accademicissimi convegni a parte - di interrogarci sul fotogramma di Rossellini. A chiederci cosa, in quell’intuizione sull’immagine, preceda l’immagine stessa, a tal punto da renderne vane periodizzazioni e indicazioni di svolta.
Le incandescenze, quella particolare pervicacia rosselliniana nel rimettersi in circolo, di donarsi alla discussione, di sottrarsi al potere stesso dell’immagine, sono ovunque. Fonti inesauribili di scoperta e di accensione del dubbio, si oppongono all’idea stessa di film: quando sono film sono già superate, ridisseminate, pronte a germogliare altrove.
Così ha fatto bene Massimo Causo, nello speciale su Rossellini di quasi un anno fa, a arrischiare un cuore selvaggio nell’ombra di Anima nera (1962). Questa sorta di ultimo atto, insieme a Illibatezza, prima della ramificazione televisiva, scorre come un fiume sotterraneo cui il corso superiore attinge in cerca di acque pulite, e dunque non è affatto un caso ritrovarne in Wild at Heart di Lynch (ma anche in Lost Highway) non solo e addirittura intere sequenze e ‘trattamenti’ dei personaggi (quello di Cage è identico a Gassman), ma lo spirito e l’assoluta irreperibilità di metodo e percorribilità visiva rispetto al cinema dell’epoca. Anima nera non assomiglia a nulla che si facesse in Italia nel 1962 e, a ben vedere, neppure in Francia, per questa sua attitudine a concepirsi al di là degli aspetti sociologici e di scrittura (di Patroni Griffi), e anche saggiamente, e forse con maggiore spericolatezza, molto poco fiancheggiante la coeva combustione cinefila e di ‘riscrittura’ del mondo operata dalla nouvelle vague. Qui contano gli uomini e le cose nel punto in cui si infrangono sul muro ‘artistico’ che li vuole organizzare, conta la zona opaca che non permette all’immagine pose dimostrative, il lavoro dello sguardo a non farsi incanalare dal supposto messaggio, a non essere solo un film (un solo film in quegli anni sembrò - altrettanto ignorato - avere appreso la lezione: Morire gratis di Sandro Franchina).
The World Population (1974), conosciuto anche come A Question of People (unico film che ci è mancato all’appello nel già citato speciale di “Filmcritica” su Rossellini), è un altro caso emblematico. L’anno anzitutto: quel 1974 che include anche Cartesius e Anno uno, i film in cui Rossellini è così sintetico da verificare la sintesi stessa, sfrangiando la più che approfondita gestione del dato storico, in una conversione filosofica del singolo primo piano, di ciò che nessuna storia e nessuna metafisica è in grado di ricostruire o di trascendere, l’addensarsi semplice e cristallino del tempo su un volto, e la difficoltà a coglierne a pieno la luce del passaggio, di riasserire la vita nel suo inesorabile ritorno all’origine (di cui fa parte la sicurezza con cui per esempio Tag Gallagher afferma che di Rossellini in The World Population non c’è nulla, che il film è tutto del montatore Beppe Cino, non accorgendosi, in questo modo, di rientrare perfettamente nel disegno e nel metodo rosselliniano...).
Pianeti come cellule, visioni satellitari, e poi la discesa nella cellula-mondo: il popolo indigeno, le ruspe (per minuti alberi che cadono: siamo già a La foresta di smeraldo di Boorman), le metropoli, i villaggi, i deserti. Riprese aeree, zoom, primi primissimi piani, occhi e pelli bruciate, carrellate, scienza e ragione che rammendano l’uomo. È esattamente questo - l’origine - l’obiettivo (tecnica compresa): la perfetta non cinematograficità all’interno di una bellezza al contrario tutta filmica. Sublime il modo in cui in The World Population è impossibile distinguere il repertorio dal filmato (se lo vedesse Herzog, anche lui dovrebbe ricominciare daccapo), come se le immagini e la loro tematicità (in questo caso il problema dell’incremento demografico), appartenessero già al mondo e al mondo venissero riconsegnate.
Film capitale (e imprescindibile per ragionare su Rossellini), la cui intensità anche visiva è tutta con drammatica lucidità in equilibrio sul bilico di ciò che nell’immagine tende a farsi film, e nella ricerca di quello che in questo passaggio viene perduto, del tempo rimasto indietro, della vita ancora da vivere.

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