lunedì 12 febbraio 2007

Serie "Vanitas" (3)


Vanitas: vuoto di memoria


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


L’unica cosa reale è la decisione di scrivere. Conta solo assumersi la responsabilità. Prima ancora della parola (romanzo, poesia, saggio). Prima ancora del film o del regista. Prima ancora del cinema. Ma questa (la mia) è una generazione che, per timidezza o per vigliaccheria, nasconde i suoi entusiasmi, rinuncia alle sue scoperte, chiudendosi in un riserbo autoreferenziale. Prende le pagine e le immagini che ama e le serra nello scrigno di un io illusorio, senza che il grido erompa e il vento gelido tagli la faccia. Più ideologica dei suoi padri, sospetta che il mercato del denaro orienti qualsiasi scelta editoriale. E benchè questo sia quasi sempre vero, sceglie un silenzio che impedisce a se stessa di parlare attraverso quelle voci e toglie loro la possibilità di rimanere rivoluzionarie. Nessuna recensione, nessun film strenuamente difeso contro tutti, è sufficiente a assolverci dallo sterminio della scena politica, che è anzitutto lo sterminio di chi crede che un film non vi partecipi o che non abbia sempre a che fare col nostro parteciparvi e con l’esserne esclusi o auto-esclusi.
Io a sua volta è semplice. Io è una buona scappatoia per cominciare. Si dice io e le parole vengono da sé e ci si crede protetti, cullati dalla maschera, mimetizzati nel corpo di una parola che, una volta scritta, si finge non appartenga più. Ma ciò che si crede un’alba è già la fine del giorno. Questo liquido amniotico chiamato cinema, che se fosse solo il film - e non per caso nei film il cinema è sempre meno - sarebbe un alibi ancora maggiore.
Responsabile dunque sarebbe accettare che il cinema, la storia del cinema, è un vuoto di memoria, al massimo un’introduzione infinita (Godard docet), da qualunque parte lo si prenda (compreso “il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio e fatto a pezzi” di Artaud, opportunamente ricordato da Cappabianca nel numero scorso). Aurora è sempre la prima cosa che sovviene, un tram che avanza e all’arrivo la città è come un abisso. Poi subito una palude bruna e, oltre i raggi ultravioletti, insieme a Murnau, almeno Joseph H. Lewis (La sanguinaria) e King Vidor (Ruby fiore selvaggio) - fingendo di non verificare l’attinenza dell’automatismo con cui emergono in serie Fejos, Nick Ray, Kubrick, Herzog, Hill... Un tram che porta in città ma che è già una deriva, un tram dove si raccontano storie o si cantano canzoni, Chabrol (L’Œil du malin, La Rupture...), Monteiro (Va e vem), Skolimowski (Bariera). E perchè Murnau e non Griffith, visto che nell’ossessiva sperimentazione Biograph l’occhio è già una grande macchina impersonale proprio come l’aurora? Il problema di chi scrive di cinema è che la scrittura non è più un tabù (ecco perchè Murnau...?). Cioè non si può scrivere dell’altro (d’altro) se prima non ci si interroga sullo scrivere. Così il vuoto di memoria è giustamente inarrestabile e la storia stessa dovrebbe esserne il tabù. Il dito medio di Georgina Spelvin in The Devil in Miss Jones che si fruga fra le gambe aperte, è in un bagno forse, qualcosa di asettico comunque, rosso cupo, marrone infetto, mestruale, umido. Anche il Bressane di Tabu ruba pellicola muta porno e pellicola-Murnau, capovolgendola nel riciclo dell’accumulo. Il vuoto stesso è tabù. Lo è anche il reverse, guardare dietro e da dietro, l’occhio fra i tendaggi dello Scorsese Made in Milan, oppure sotto le tonache dei samurai in Tabù di Oshima, il cui cinema è da sempre un volto bianco vergine che si riflette nel riflesso ghiacchiato di una spada insanguinata...
Ma poi la flagranza del cinema capace di toccare la propria im-presentabilità, di afferrare per un istante l’illusione stessa di un luogo (invece è fuori luogo o al massimo in luogo di), può dimorare nella scissione folle dello scrittore che mentre dice io è già altrove e semplicemente non-è (l’ultimo formidabile Lunar Park di Bret Easton Ellis); oppure negli abissali mancamenti fra ogni singola parola, il neologismo stesso che diventa fuori campo, curvando oltre il tempo e diventando puro spazio (gli ultimi due seriali geniali Scasso con stupro e Jungletown Jihad di James Ellroy)...
La parola e l’immagine comprendono sempre il proprio intervallo, e dell’intervallo, qualunque esso sia, si deve provare a scrivere, ed è l’intervallo che si deve provare a filmare. Scrivere qualcosa in cui la parola non sia più che parola; filmare qualcosa in cui l’immagine non sia più che immagine. Sapere sempre la propria inadeguatezza.
Uno scrittore non scrive racconti, racconta l’orrore del raccontare. Se le parole mancano, se continuano a non sembrare quelle giuste, si è sulla buona strada. Oggi gli scrittori sono tanto filmici quanto è a-filmica la scrittura sul cinema. In entrambi i casi il cinema e lo scrivere rimangono in mezzo (nei casi peggiori un mezzo). Sarebbe già qualcosa limitarsi a studiare il punto di emissione (della parola e dell’immagine). Emettere per dismettere. Non scrivere per intervenire.

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