giovedì 8 febbraio 2007

Serie "Vanitas" (1)


Vanitas: sogno snuff


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


In realtà si sogna di vedere meno. Si sogna una sottrazione il cui soggetto mancante sia la visione. Si cerca vanamente l’invisibile al principio di un mondo continuamente riscritto, la sigaretta che brucia all’altezza della riscrittura (il Lynch di Wild at Heart già si assestava dalle parti della combustione). Il fumo è già nei polmoni, l’immagine è già del mondo. Per questo l’angelo-fotogramma in Cigarette Burns di John Carpenter nel finale si riprende il film e si ridà alla pellicola, per riconsegnarla al fuori, dove non ha mai smesso di girare, dove è sempre stata. La storia a ritroso, il mondo già filmato. In questa uscita dell’angelo dalla sala Carpenter riporta la cosa dove essi - noi? - vivono. Il film maledetto, cui l’angelo stesso apparteneva, non a caso si intitola La fin absolue du monde, che è un semplice dire descrittivo di quello che sta accadendo là fuori. È averlo strappato da lì - qui? - che provoca disastri dentro, al cinema (impossibile non pensare all’Abel Gance di La fin du monde, dove la fine ha inizio in un cinema in cui si proietta un film sulla passione di Cristo). Intestini che si sostituiscono alla pellicola, arti mozzati, incisioni sulla pelle, bruciature, omicidi, sempre la stessa recensione riscritta per tutta la vita perchè il vero sogno snuff è la parola, la ricerca della parola giusta (io stesso so di star scrivendo la stessa cosa, questa cosa, da molto tempo, per vanità forse, fascino dello sperpero, dello sperperare se stessi in un automatico specchiarsi).
In fondo ci si interroga sul pensare. E si giunge al punto in cui la domanda - dello scrivere e del guardare, per quanto vani o vanitosi - si oltrepassa, non è più lo specifico della domanda, ma l’apertura, la questione dell’uomo e di Dio. Non dare risposte, ma domandare la possibilità di domandare. Non è più il film, per quanto mai visto e per quanto leggendario, ci dice Carpenter, ma ciò che continua dopo i titoli di coda e che proseguendo si accorge di essere sempre stato là, cosa vista dalla cosa prima ancora d’essere filmata. Non più cos’è il cinema, ma cos’era prima il cinema, cosa c’era prima del cinema.
Il cinema domanda passato. È la realtà della discontinuità del reale (questo, più di tutto, aveva compreso Rossellini). Indaga e mette in questione la memoria (di sé, dell’altro, della cosa prima). Si attesta fra l’origine e il tempo che con duplice movimento la allontana e la ripete all’infinito. Interroga il passato, è una domanda al passato. Perciò l’immagine fa paura, perchè proprio perdendo la memoria, cioè passando in infinite memorie, ne permette una resistenza, talvolta anche un recupero intermittente.
Recupero che passa per una riperdita. Le stesse tecnologie di visione possiedono l’ingenuità di permettere di ritornarci sopra (non al film, ma al film della memoria perduta), sicure di essere solo tecnologie. Dario Argento ci torna sopra di continuo alla paura dell’immagine. A partire dal televisivo Do You Like Hitchcock?, così rosselliniano nel volersi affidare al ‘cinema cinema’ (di cui Hitchcock è solo la nominazione immediata). Indifferente alle sceneggiature, ma affascinato dal guardare quel tanto che basta a diffidarne, usa il potere del cinema per sconfiggere il potere del cinema (ovvio che si parta dalla televisione, che con anche maggiore automaticità nega il concetto stesso di memoria. Argento, incompreso, ha cominciato questo discorso fin dai precedenti Nonhosonno e Il cartaio). E poi in Jenifer, l’episodio più bello insieme a quello di Carpenter della serie tv Masters of Horror, producendo di nuovo uno schock che solo apparentemente riguarda il corpo meravigliosamente mostruoso della bella-bestia (qui in un corpo unico), ma che invece viene eroticamente spinto verso l’accecamento, verso il visivo divaricato fra orrore e perversione.
Il cinema (ci) ricorda che non c’è dialettica senza che la fine della domanda coincida con l’inizio della successiva. Non a caso l’odierna politica, che è sempre, suo malgrado, politica dell’immagine, nega la domanda in sé: la domanda non ha bisogno di essere immediatamente intellegibile per porsi, anzi non lo è mai. Tanto che sempre più di frequente costringe colui che la esplicita a restare inedito. Dominion - Prequel to the Exorcist di Paul Schrader rigirato ex novo da Renny Harlin (che fra l’altro fa un film più che interessante, che gioca l’horror sottoforma di action spossante, ma colto da inatteso insuccesso di pubblico. Cecità del capitale). Cosa non quadra nella domanda schraderiana? La meditazione fordiana, lo scorrere del bene e del male oltre ogni filiazione, il superamento di ogni conciliazione iconografico-religiosa. Ford e la sua epica familiare, Ford e i suoi rapporti di sangue, Ford e la sua vasta terra magnetica che quei rapporti li mescola in un fiume denso che ricerca la bellezza nella fragilità e nella passione di ciò che è spurio (I cavalieri del nord-ovest, I tre della croce del sud, Missione in Manchuria...). Tutto questo è Dominion. Alla carne che si ammala dall’interno di Friedkin, all’abisso filosofico di Boorman, Schrader aggiunge l’impronunciabile assenza di Dio. Quell’immagine la cui domanda si pone sempre in quanto vana.

2 commenti:

roybean ha detto...

Caro Loresp, eccoti dunque individuato da un acronimo che rende discreto il continuo "intero" che sei, come un fotogramma che velocizza l'energia dinamica che ti definisce mentre, costantemente, muti rispetto all'istante precedente!
Ho letto le cose davvero interessanti che hai scritto su Carpenter/Argento e su Schrader/Ford e sai che su questo i nostri pensieri camminano come dentro il medesimo sentiero concettuale. Ho però pensato a te nei giorni scorsi quando ho visto, difilato, in soli due giorni, 6-7 vecchi film degli anni trenta con Fred Astaire e Ginger Rogers (i grandi classici di Mark Sandrich e qualche decisivo William A. Seiter) e, come sempre, "folgorato" da questo "formato" (sic!) di vecchio cinema analogico, m'è venuto di pensare che il digitale forse non fa altro che mettere a nudo quel che il film analogico sapeva già egregiamente fare, incompreso quasi del tutto da critici e intellettuali, mentre veniva fondatamente compreso-consumato dagli spettatori.
"C'è molto ancora da imparare..." (Yoda, in Episode II, Attack of the clones).
Ciao, il tuo quasi-vecchio
Roy Bean

Giona ha detto...

Ok: sono lieto di avere tue news. In questo modo so dove sei e cosa fai. C'è qualcosa da leggere su cui vale la pena di perdere un po' di tempo.