venerdì 9 febbraio 2007

Serie "Vanitas" (2)


Vanitas: la lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza


In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Ma poi l’immagine è già il suo sdoppiamento, tale e in quanto immagine, la cosa di cui si parla dopo, ciò che permette di rivelarla, cioè di dirla e insieme di rioccultarla, dirne l’impossibilità d’essere ridetta. La vanità della parola è nel suo esser vana. La vanità del cinema è nel suo esser vanamente ridetto e parlato. L’unico cinema ‘utile’ è quello che non si può dire a parole, cioè per paradosso quando la parola si affranca dal vedere. Quando crea un nuovo mondo. La grazia discreta con cui Pochaontas si fa stringere nelle vesti e nelle scarpe strette dell’Occidente già per sempre malato - mentre l’indiano passa radente sulle chiese e nei cimiteri e infine spalanca la porta sull’ultima fuga. Quando dunque si infrangono le regole della parola filmata snodandola in un intrico che fa a meno dell’immagine nel momento stesso in cui la apre, la fende dall’interno, facendo del sangue un moto ondoso che unisce l’increspatura dell’onda alla risacca. Scrivere di cinema è azione temporalmente più avventata del cinema stesso - in mare aperto o a riva, dove si sceglie di stare? Straub-Huillet, al centro della domanda, non sono neanche più la parola, sono la corda vocale che vibra, prima ancora dell’onda. Malick riesce ad affogare a largo e poi anche a rifluire leggero dove l’onda muore.
Nei flussi e nei flutti la scrittura si erige comunque - c’è chi ci sopravvive e chi le sopravvive - e (si) muore un poco. Cosa significa recensione? Per etimologia “l’operazione intesa a restituire un testo all’esatta lezione (...)”, che per estensione diventa “esame critico, in forma di articolo più o meno esteso, di un’opera (...)”. Cioè dove la filologia incontra il sistema poliziesco del giudizio. Non a caso Walter Hill, duro e timido, a suo modo si affannava a ripeterci: ma perchè vi dovrei rispondere? La critica non ha niente a che fare con l’immagine, né con la scrittura, se non per la coazione a ripetere di una doppia non trasmissibilità: scrivere dell’immagine quando già la parola è immagine. Basterebbe forse qualche piccolo tenero riconoscimento - nell’Hill ancora in lavorazione, un western di tre ore per la tv dal titolo provvisorio di Daughters of Joy (poi Broken Trail), dieci minuti per vedere l’ombra di Hawks in allungo, la semplice scorza dura del primo piano, del dialogo, del viaggio, della terra, ma sempre così lontanto da ciò che si crede di aver visto...
Profili confusi. Brevi nitidezze. Improvvise accensioni di una memoria che manca. Di questo forse si può scrivere. Di John Ford, l’unico in cui la chiarezza adamantina nasce direttamente dalle ombre, dai non detti, dal richiamo di tutto un mondo che non c’è bisogno di filmare né di scrivere perchè è già l’eco perpetua di sé, come quella madre (Maureen O’Hara) che in Rio Grande bacia tre volte il figlio nella tenda notturna, immaginando per ogni bacio una storia ancora da raccontare - protettiva sulla fronte, giocosa sul naso, perversa sulle labbra. Scrivere di cinema è il bacio incestuoso dell’interdetto, tempo donato al tempo, un margine, un brandello di verità laddove rappresentazione, ricostruzione, figurazione sono sempre altrettanti falsi - falsi culti e falsi d’autore.
I nomi, i titoli: ulteriore mascheramento dell’impossibile processo unitario, nel cui orizzonte si scorge pure il non meno ipocrita gioco del potere di chi può vedere di più, per lavoro o per privilegio è questo il punto critico. Ma le appartenenze sono infine solo a se stessi, a quel qualcosa che si trattiene - addosso e nella memoria. Elenchi, resti, cose viste, cose viste attraverso gli altri, cose solo annotate. Lo Tsukamoto di Haze, unico a credere ancora nel corpo-cosa, che la cosa sia il corpo, e ci si chiede chi filma mentre lui si fa schiacciare dalle pareti, affogare e torturare nei cunicoli bui, nel vuoto pneumatico di una camera cinema senza luogo. La seconda parte, quella in fuga, di The Island di Michael Bay, tolto dall’impaccio del ricalco lucasiano per un momento riesce a far scivolare la scoperta della velocità nella pesantezza ferrosa di un action che si credeva morto (vicino in questo al Mostow di Terminator 3). Il caso Luketic, di questi due film, La rivincita delle bionde e Quel mostro di mia suocera, di filigrana così hawksiana, talmente lucidi e leggeri da risultare invisibili, sorpresi e sorprendenti in un ritardo areiforme. Ring 2, altrettanto non visto, sicuramente il migliore di tutta la serie, Hideo Nakata americano che fa meglio di Hideo Nakata giapponese, anche lui sedotto dalla potenza dei mezzi, che li guarda agire con fare assorto e quasi inerme. Spanglish di James L. Brooks, se una tenuta del set e dell’aria fra i corpi (ma certo: tutti anonimi) che ricorda Lubitsch viene scambiata, in senso scioccamente spregiativo, per deriva televisiva... Se, appunto. Ma anche così, non serve a niente.

Nessun commento: